Verso il Nepal 2013

Sulle orme della Fiat Panda. Viaggio dall'Italia al Nepal con una Dacia Duster 4wd


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Verso il Nepal 2013 (nuovo blog viaggio 2014: http://versolamongolia2014.wordpress.com/)

Appassionato viaggiatore terrestre, vengo da una lunga serie di Fiat Panda 4×4 prima serie, con le quali ho percorso circa 1,5 milioni di chilometri, da quando presi la patente nel 1983 con una Panda 30.
Con le Panda 4×4 (l’ultima del 1999 con “solo” 350.000km ce l’ho tuttora come macchina-muletto), ci ho fatto un infinità di viaggi estremi. Dai deserti dell’Algeria o della Libia alle strade ghiacciate della Lapponia in gennaio.
Dal 2002 in poi mi sono spinto sempre più lontano fino a viaggi della durata di 4 mesi e mezzo attraverso Europa, Asia Centrale, Cina Tibet, Mongolia, Siberia, Nepal, India, Pakistan e Iran.
Col passare del tempo ho attrezzato la Panda per dormirci dentro durante i lunghissimi tragitti, spesso in zone desertiche e senza attrezzature turistiche.

Pandacamper

Dopo tanti anni di viaggio con la Panda 4×4 sulle strade dell’Asia, sentivo il bisogno di un auto più comoda e capiente per poter ampliare la mia autonomia di viaggio.

Con la Panda avevo ormai raggiunto il limite massimo per quanto riguarda il notevole bagaglio che devo portare con me. Anche togliendo tutti i sedili, il massimo delle cose per me indispensabili che riuscivo a stipare dentro, equivaleva ad un autonomia di circa quattro mesi e mezzo.

Dopo varie considerazioni, la scelta è caduta sulla Dacia Duster 4wd diesel. Mi è sembrata capiente e dalla meccanica semplice e affidabile, un po’ in stile con la cara vecchia Panda 4×4. Il fatto di essere prodotta anche in parecchie nazioni che mi piace attraversare (Marocco, Romania, Russia, Turchia, India), mi ha aiutato nella scelta pensando che in caso di guasto in una di quelle nazioni, avrei potuto trovare un meccanico in grado di ripararla.

La Dacia Duster 4wd mi è piaciuta, pensando a quanti bagagli in più portarci dentro per poter aumentare la mia autonomia di insaziabile viaggiatore.
Come l’ho presa, arrivando alla filiale Renault di Roma con la Panda, il 24 febbraio 2012, ci sono subito partito per un giro di assaggio tra i monti d’Abruzzo.
Da allora non mi sono più fermato, e ora (27 novembre 2013) ha già 95.000 km!

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Tra agosto e novembre 2012 ci ho fatto un viaggio di “prova” in Asia Centrale sulle orme delle mie gloriose Panda 4×4.

Sono partito a metà agosto 2012 da solo con la nuova auto carica dei bagagli necessari per un viaggio di “assaggio” di 20.000 km verso oriente (sono tornato in Italia a metà novembre 2012).
Come facevo con la vecchia Panda, ho usato la macchina come una casa viaggiante.
La trasformazione in “Dustercamper” è stata semplice:

Dusterhotel

Ho semplicemente abbattuto i sedili posteriori (togliendo la panca posteriore diventa capiente come un furgoncino), ed il materassino gonfiabile, lungo 2 metri e largo 80 cm, è entrato perfettamente tra la parte dietro del sedile passeggero fino al portellone. Avevo a disposizione anche una specie di oblò (il piccolo finestrino fisso sulla fiancata vicino al portellone) di avvistamento, dotato internamente di comodo “davanzale” dove appoggiavo la tazza con il caffè della colazione.
Abitando nelle campagne (che mano a mano si trasformavano in vasti spazi stepposi e poi in maestosi paesaggi montani), ho attraversato l’Europa, la Russia, l’infinito Kazakistan e il Kirghizistan, dominato dalle meravigliose vette del Tian Shan e Pamir, per poi tornare in Italia nuovamente attraverso il Kazakistan orientale, gli Urali e la Russia europea.
L’auto si è comportata bene durante il lungo percorso, spesso su strade difficili, come ad esempio i mille e più chilometri di sterrati di alta quota in Kirghizistan, “digerendo” senza storie il gasolio erogato dai fatiscenti distributori dell’Asia centrale.

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Visto che mi sono trovato bene con la Dacia (sicuramente più comoda, potente e meno esosa di carburante rispetto alla vecchia Panda 4×4), ho deciso di ripartirci il 20 aprile 2013 per un altro lunghissimo viaggio attraverso Europa, Iran, Pakistan (tra i meravigliosi monti del Karakorum su difficili piste di montagna), India (passando per le affascinanti e magiche vallate del “piccolo Tibet” tra Kashmir, Ladakh, Zanskar, con passi montani di oltre 5.600), la confusissima Dehli, il verdissimo Nepal, il Sikkim e ritorno attraverso il centro dell’India, Pakistan, Iran Turchia.


Qui sotto il percorso che ho compiuto tra il 20 aprile ed il 29 ottobre 2013: 35.000 km di emozioni e incontri.

Percorso viaggio 2013 [1600x1200]

Il 20 aprile si avvicina, e come al solito mille cose da fare, e la paura di non farcela in tempo.
Ho la casa invasa dalle cose da caricare in macchina.
A vedere tutti questi bagagli sparsi in tutte le (poche) stanze della mia casa, tra pacchi, borsoni enormi, cassa viveri e taniche, mi sembra quasi impossibile farli entrare nell’auto che diverrà la mia casa viaggiante per i prossimi mesi di viaggio verso il “sol levante”.

Il Carnet de Passage en Douane, documento doganale indispensabile per attraversare con l’auto le frontiere dell’Asia, l’ho preso giorni fa all’Aci.

l’altro ieri ho ritirato il passaporto al confuso consolato indiano. Nell’aria aroma di spezie orientali e vociare indi, tutto un gesticolare e ondeggiare di teste. Fantastico, mi hanno dato il visto valido sei mesi a ingressi multipli!
Ieri invece, al consolato iraniano regnava quella strana atmosfera seria sormontata da due foto incorniciate di Khomeini e Khamenei accigliati e dagli sguardi magnetici.
Hassan, mi ha ricevuto benevolo con il fax della lettera d’invito, finalmente giunta dal Ministero Affari Esteri di Tehran. Ero felice pensando di ricevere il visto subito, ma Hassan mi gela dicendomi che il visto sarà si valido un mese, ma dovrà essere usato entro 15 giorni dall’emissione.

Il massimo che il gentile funzionario del consolato può fare per me è applicare il visto il 18 aprile mettendo la data del 19. Non avendo altra scelta acconsento.
La nuova procedura iraniana per il rilascio visti (tre anni fa non era così) richiede di lasciare le impronte di tutte le dita di entrambe le mani. Esco dal consolato di via Nomentana con le mani completamente imbrattate da un inchiostro blu insolubile con acqua e sapone (si toglie solo con alcool)!
Insomma, va a finire che mi toccherà fare le corse per arrivare entro il 4 maggio alla frontiera con l’Iran. E io che pensavo di prendermela comoda facendo una deviazione in Georgia e Armenia…

Il 20 aprile il viaggio è iniziato!

Il contachilometri segna 58.300km

Partenza!

La Dacia ipercarica si è mossa da Roma con calma verso le 12 e 40, e alle 18 e 30 era già a Varese, dove ho parlato dei miei viaggi presso l’associazione di viaggiatori “Le Vie dei Venti”.

La macchina sembrava non soffrire per il notevole carico, e tranquilla e veloce mi ha portato tra i bei panorami italiani fatti di campi in fiore.
A Roma era caldo e viaggiavo con l’aria condizionata, ma appena passato l’Appennino il tempo si è fatto scuro e tempestoso e ho dovuto accendere il riscaldamento.
Sui monti intorno Varese è nevicato!

 

21-4 Domenica:

Dopo la mia proiezione sui viaggi di ieri sera, organizzata dall’associazione “Le vie dei Venti”, lascio Varese sotto un acquazzone. L’amico Gianluca Torrente, “mente” dell’associazione, mi manda un messaggio: “Caro Fabio, grazie ancora della bella serata e del grande calore che sempre ti accompagna. Che il viaggio sia con te!”. Riprendo il mio andare, ancora in Italia, ma già verso oriente, per raggiungere Pordenone ed i vecchi amici Andrea, Alessandra e “Picco”. Li conosco dal 2004, epoca del fantastico viaggio dall’Italia al Tibet e ritorno. Erano loro i mitici motociclisti “Sherpa”, che mi portarono su per le ripide scalinata dei monasteri tibetani. Nel campo-punto d’incontro che gestiscono insieme ad altri amici, passo la prima notte nel “Dustercamper”, mentre fuori piove a dirotto. Impiego parecchio tempo ad organizzare il mio giaciglio, come sempre accade nelle prime notti che passo in macchina. Ancora la disposizione del notevole bagaglio non ha la giusta collocazione, ma la prenderà presto, visto che ogni notte dovrò spostare parte del bagaglio da destra a sinistra per fare posto al materassino gonfiabile che staziona sotto i bagagli nel lato destro della macchina. Ad operazione conclusa mi accingo a dormire, cullato dal temporale. Durante la notte vengo visitato dal gatto “Pinta” che si diverte a zampettare sul tetto dell’auto.

22-04 Lunedì:

Risveglio grigio e piovoso, quasi autunnale. Osservo il verde canneto alla mia sinistra pensando a quando, tra qualche mese in Asia, panorami così mi saranno del tutto familiari. Dopo aver risistemato la disposizione del bagagliaio, riprendo a viaggiare verso oriente, e velocemente oltrepasso Trieste, con il suo confuso e fumoso porto dell’est. Lascio l’autostrada e mi inoltro sulla statale sinuosa, che corre tra bei panorami collinosi, per poi entrare in Slovenia (grazie Andrea e Picco per avermi consigliato questa strada). Continua a piovere quando imbocco l’autostrada per Zagabria. Proseguo a guidare fino alla frontiera con la Serbia. La oltrepasso in un istante, e mi fermo per cena ad un area di servizio, già con quell’atmosfera un po’ grigia e malinconica tipica dei paesi dell’ex blocco Sovietico.

Primo campo

La seconda notte, passata in un vasto campo appena arato vicino all’autostrada per Belgrado, è più semplice da organizzare. La collocazione dei bagagli comincia a prendere la giusta forma. Prima di addormentarmi, osservo l’ampio campo illuminato finalmente da una confortante luna crescente quasi piena.

23-04 Martedì:

Risveglio tiepido, sotto le foglie di un bell’albero che frusciano al vento. Ora comincio a sentirmi realmente in viaggio, e cerco di rendermi conto che sono veramente partito per un avventura, viaggiando verso il Nepal, che dovrebbe durare parecchi mesi. Mi paiono già così lontani quei giorni frenetici di preparazione per affrontare quest’ennesimo viaggio verso oriente. Le interminabili difficoltà e scartoffie per ottenere i sospirati visti e Carnet de passages en Douanes, mi sembrano ormai appartenere ad un altra dimensione. Ora la mia realtà sarà fatta di strade, paesaggi, incontri con persone che mano a mano si faranno orientali, e notti passate in campi dagli spazi sempre più sconfinati.

Approfittando del bel sole caldo, oggi quasi estivo, mi concedo la prima doccia all’aperto. Meraviglioso lavarsi sotto il sole, con una dolce brezza ed il canto degli uccellini. Altro che casa!

Ore 22 e 05. Km 60.466: Frontiera Serbia-Bulgaria.

Questa sembra una vera frontiera dell’ex Unione Sovietica. Costruzioni grigiastre e marron-ruggine. Qui non c’è niente che luccica. Però i militari fanno presto, ed in 20 minuti mi ritrovo a guidare sull’approssimativo asfalto bulgaro. Lungo la strada buia trovo un bel ristorante ancora aperto, e ne approfitto per una buona cena a base di insalata greca e bistecca con patatine fritte. Il posto sarebbe bello, con quel suo arredamento rustico in legno pieno di grandi piante, se non fosse per l’assordate musica disco ’80 che bombarda le mie orecchie. Proseguo sull’autostrada sconnessa, dove però il limite di velocità è di 140, oltrepasso Sofia, e mi fermo per la notte in un bel campo verde illuminato dalla luna piena.

Secondo campo Bulgaria

24-04 Mercoledì:

Caldo risveglio cinguettante con lieve brezza di vento. Il dolce panorama che mi circonda, fatto di verde abbagliante e ampie colline, è disturbato soltanto dalla distante autostrada e da un grande parco fotovoltaico che ricopre un’intera collina. E’ bello viaggiare verso l’estate osservando la natura che si risveglia.

Questa è la prima volta che parto in primavera. Di solito comincio i miei lunghi tragitti a metà luglio nel pieno dell’estate, ma sulla via del ritorno incontro l’autunno e talvolta temperature gelide. Ora invece ho davanti la stagione calda che va crescendo. Spero che in Iran e Pakistan, dove giungerò tra maggio e giugno, il clima non sia troppo rovente.

Oggi me la prendo comoda, riparto nel pomeriggio dopo essermi cucinato il pranzo con i fornelli a spirito che porto sempre con me durante il mio andare. E’ la prima “cucinata” di questo viaggio. Mi preparo una pasta al basilico e piadina al formaggio niente male, mentre il mio sguardo spazia verso est.

Lascio l’autostrada e guido tra colline e piccoli centri abitati dall’atmosfera campagnola. Osservo gruppi di persone che si dissetano ai vari chioschi sparsi lungo la strada amichevole. Da alcuni di questi bar si levano musiche che ora si fanno da balcaniche a orientaleggianti, segno che la Turchia si avvicina.

Ore 21 e 30, km 60.865: Frontiera Bulgaria-Turchia.

Dal lato opaco e spento bulgaro passo sul versante turco. Di qua il modo cambia. La costruzione frontaliera è enorme e sfavillante, rimango quasi abbagliato da tanta luce e splendore. In breve la prima grande moschea mi da il benvenuto in Turchia.

Notte in un campo appena arato. Una luna piena enorme, il gracchiare delle rane e lo sferragliare di stanchi treni merci come sottofondo.

25-04 Giovedì – Turchia:

Caldo risveglio cinguettante. Spira un vento caldo che sembra già piena estate.

Prendo a guidare sulla bella autostrada turca, e velocemente mi trovo imbottigliato nel caotico traffico di Istanbul. Qui è peggio che a Napoli: autostrada cittadina a 4 corsie piena di macchine arroventate che si muovono zigzagando da sinistra a destra e viceversa incuranti delle pattuglie di polizia presenti ovunque che sembrano far finta di niente.

Per me questo è un primo test di guida cittadina confusa. Passerò per gradi dalla guida turca, a quella iraniana, ancora più improvvisata, per poi passare attraverso quella pakistana, in modo da trovarmi già assuefatto (o forse impazzito) all’impossibile sistema di guida indiano.

Finalmente riesco a barcamenarmi nel traffico e oltrepasso il famoso ponte sul Bosforo. Per festeggiare l’ingresso in Asia, mi fermo a cena in un bel ristorante sul versante asiatico del Bosforo, a bordo di un canale con attraccati lussuosi yact. Ottima cena con insalata simil-greca, petto di polo alla piastra con riso, e un buon caffè turco.

Notte panoramica tra le montagne a 250 km da Ankara. Il gorgogliare di un torrente mi culla.

26-04 Venerdì:

Oggi dolce risveglio con il frusciare di un torrente che corre spumoso tra montagne ricoperte da fitta vegetazione colorata di primavera. Una tartaruga, che lentamente si muove tra l’erba, mi da il buongiorno. In lontananza il canto del Muezzin chiama i fedeli alla preghiera del venerdì. Mi sembra quasi incredibile, dopo il traffico impossibile di ieri sera intorno a Istanbul, aver trovato un posto così quieto.  Sono a 250 km da Ankara, e ancora lontano dal confine con l’Iran che devo raggiungere assolutamente entro il 4 maggio, giorno ultimo per poter utilizzare il visto iraniano.

Questo limite temporale mi rende ansioso. Nel viaggio che sto facendo, così ampio nel tempo e nello spazio, avere delle scadenze prefissate mi infastidisce. Non riesco ancora a godermi appieno i paesaggi, a fermarmi a parlare con la gente, o almeno a provare con un po’ d’inglese. Anche se non mi pare poi molto conosciuto qui. Forse sarebbe meglio il tedesco, visto che molte persone dalla Turchia sono emigrate in Germania in cerca di lavoro.

Proseguo sulla levigata, veloce, ma noiosa autostrada a 3 corsie. E’ modernissima con parecchie aree di sosta enormi dotate di lussuosi ristoranti e luccicanti negozi con su scritto “outlet”. In molte di queste è presente la connessione wifi gratis, così ogni tanto ne approfitto per lasciare traccia del mio girovagare.

Ma basta lasciare il sinuoso e freddo nastro d’asfalto, per immergersi nella quotidianità dei villaggi turchi. Osservo allora ragazzini schiamazzanti giocare a pallone vicino ad un fiume, una vecchia signora prenderne l’acqua con delle taniche, un’altra indaffarata a rincorrere le sue mucche armata di un ramoscello, camioncini strombazzanti e colorati, che mi portano già a fantasticare a quelli coloratissimi e addobbati da catenelle che incontrerò in Pakistan e oltre (ad arrivarci!).

Mi fermo a dormire tra brulle colline ricoperte da radi cespugli. Una luna ancora piena, il vento ed il canto degli uccellini. Quasi da sembrare frastuono nel silenzio circostante.

27-04 Sabato:

La notte è stata fresca, ma appena sale il sole l’aria si fa calda, quasi estiva. Perfetta per la doccia all’aperto che faccio ogni giorno appoggiando una tanica sul tetto della macchina.

Lascio questo posto dalle colline tondeggianti e biancastre da sembrare fatte quasi di sale e oltrepasso Ankara. Per fortuna la superstrada che ci passa attorno non è trafficata come quella impossibile di Istanbul. Prendo la strada per la Cappadocia, forse non è la via più breve per raggiungere la frontiera con l’Iran, ma visto che ho ancora otto giorni per arrivarci, me la prendo comoda per visitare nuovamente la regione dei “Camini delle Fate”.

Lungo la strada costeggio un vasto lago salato, che ora è ricoperto d’acqua salmastra. Sono già passato due volte qui in piena estate, ed il lago era solo una grande distesa di sale bianchissimo. Adesso invece con l’acqua che scende dalle montagne circostanti si è in parte riempito, lasciando qua, e là chiazze di candido sale.

Tutt’intorno è un susseguirsi di raffinerie per la produzione di sale. Attorno alla riva osservo i bianchi cumuli di sale ad essiccare. Ormai sera giungo a Goreme, uno dei principali centri turistici della Cappadocia. Una luna quasi pena e giallognola illumina magicamente le forme astruse dei pinnacoli di roccia che attorniano Goreme. Faccio un giro per il bel paese, che anche se molto turisticizzato, mantiene un certo fascino.

Mangio benissimo nel mio “solito” ristorante, dove vengo ovviamente riconosciuto dai gestori. Dopo cena passeggio un po’ per la cittadina ormai attardata e deserta. E’ mezzanotte e gli ultimi negozi turistici e bar hanno chiuso, ma un grande negozio di tappeti posto sotto una strana roccia, e vicino alla bella moschea centrale è ancora aperto. L’anziano proprietario, forse sofferente d’insonnia, è sull’uscio intento nelle parole crociate. Ho la macchina lì vicino e ho la necessità di riempire la tanica dell’acqua che uso per lavarmi. La porto all’anziano signore chiedendogli se gentilmente può riempirmela d’acqua. Lui si alza, si dirige alla moschea e la riempie subito con l’acqua della fontanella per le abluzioni. Mi aiuta poi a metterla in macchina e mi saluta, forse pensando a chissà cosa ci debba fare, poi si rimette a compilare i quiz.

“Domani farò una doccia santa”, penso tra me mentre mi allontano in auto dal caratteristico paese in cerca di un campo per la notte.

Risveglio Cappadocia

Passo una notte magica parcheggiato in un campo erboso di fronte alle caratteristiche costruzioni naturali fatte dal tempo, dall’acqua e dal vento della Cappadocia.

28-04 Domenica:

Risveglio bollente, e pensare che in Italia piove! Mi gusto il meraviglioso panorama fatto dalle bislacche forme rocciose che mi circondano, mentre faccio colazione. Certo che l’aria condizionata qui aiuta! Riprendo il viaggio dopo pranzo verso Kaisery. Osservo nei suoi bei giardini, intere famiglie avvolte dai fumi dei barbecue intente nel cucinare succulenti spiedini, attorniate da frotte di ragazzini vocianti. Lasciata la città capoluogo della Cappadocia, prendo a inerpicarmi sulle montagne per raggiungere Malatya. La strada sale tra monti arrotondati e spogli, ma coperti da erba verdissima.

In alcuni campi dei contadini sono intenti nella semina spargendo a mano le sementi contenute in un sacco che portano legato su un fianco. Spargono i semi con un gesto amorevole e arcaico nello stesso tempo, che prosegue immutato da generazioni.

Il sole sta tramontando dietro me, di fronte il nastro d’asfalto rugoso si perde all’infinito verso lontane cime luccicanti di neve ghiacciata. Mi fermo a cena in una “lokanta” nel centro di un paese affossato in una vallata. Tutti gli abitanti mi guardano incuriositi. Alcuni di loro entrano amichevoli nella trattoria per chiedermi chi sono e dove sono diretto. Mangio un ottimo spiedino di pollo ed insalata. L’affabile gestore mi offre anche la possibilità di usare la sua connessione wifi (ma forse proprio sua non é). Provo più volte, ma la password non va bene. Mi fa allora provare con tutte le connessioni del circondario usando varie password, ma inutilmente. Gli dico che non è importante, ma lui vuole fare un ultimo tentativo. Prende il mio pc e lo porta dalla parte opposta della strada in un piccolo hotel, per chiedere loro la chiave d’accesso. Dopo poco torna sconsolato scuotendo la testa. Quasi a volersi scusare, mi fa usare il suo pc dotato di antenna wifi e amplificatore supplementare. Infatti, il suo si connette con tutte le reti del paese! Notte su un altopiano a quota 1.800 m.

29-04 Lunedì:

Stamattina, alle 8, vengo svegliato dal bussare deciso contro la macchina!

Sono della “Jandarma”, la polizia militare turca. Chissà che ci fanno quassù, su questa stradina sterrata. Uno di loro è armato di fucile. Sono forse già in Kurdistan? Vogliono sapere chi sono e cosa faccio qui. Rispondo: “stavo dormendo, sono un turista italiano”. I loro sguardi da tesi e minacciosi si fanno ora distesi, telefonano al comando, informandoli sul chi sono e dove sto andando, e mi salutano scusandosi per il disturbo.

Se fossi stato un kurdo mi avrebbero trattato allo stesso modo? Chissà… Evviva il Kurdistan libero!

Dopo un po’, arrivano dei contadini

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(saranno stati loro a chiamare la Jandarma?) che vogliono invitarmi a pranzo. uno di loro mi parla con un po’ di tedesco, appreso durante un periodo di lavoro in Germania. Io rispondo usando le poche parole che ricordo di un corso di tedesco che feci tanti anni fa. E’ una persona molto gentile, ma gli spiego che  ho da fare dei lavori sulla macchina, e poi io non sono ancora pronto. Sono ancora nella “zona letto” dell’auto, e mi ci vuole un sacco di tempo per riordinare tutto per permettermi di scendere. E’ un peccato, chissà quante storie sapeva quell’anziano.

E pensare che ieri sera giungendo quassù con una ripida stradina sterrata quasi da 4×4, credevo fosse un posto deserto. Invece qui intorno ci sono varie coltivazioni di noci e frutta, e sparse qua e là casupole di argilla dove soggiornano gli agricoltori durante la stagione del raccolto. Ogni tanto passano in gruppi su rimorchi trainati da trattori sui viottoli sconnessi tra le piante.

Dopo aver rimesso a posto i bagagli per consentirmi di “saltare” al posto di guida, mi metto al lavoro sul sistema di frizione automatica, parte dei miei dispositivi di guida al volante. E’ da ieri sera dopo cena che il sensore a infrarossi montato sul pomello del cambio non funziona più. Questo piccolissimo sensore serve nel cambio marce. Infatti,  ogni volta che devo cambiare, mi basta poggiare la mano sulla leva del cambio ed innestare la marcia che desidero. Il sensore a infrarossi “sente” la mia mano sulla leva ed informa una sofisticata centralina computerizzata, la quale a sua volta va ad incaricare un motore elettrico, montato nel cofano della macchina, di pigiare il pedale della frizione. A cambiata avvenuta, togliendo la mano, il pedale torna a riposo con una velocità prestabilita nella mappatura della centralina di guida.

Un sistema alquanto sofisticato, che come immaginavo, si mette a fare le bizze proprio in un viaggio così particolare. Fortuna che sono un tecnico ed ho tutta l’attrezzatura necessaria (compreso un sensore infrarosso di riserva che la ditta “Sistema Guida 2000”, installatrice dei comandi al volante, mi ha regalato) per intraprendere il delicato lavoro.

Devo smontare la cuffia della leva cambio, sfilare il sensore guasto e risaldarci quello nuovo. Un lavoro di precisione che non devo sbagliare, altrimenti mi toccherà chiedere un bastone ai contadini per azionare manualmente il pedale frizione. E chissà che non andrà a finire così magari in India!

Usando il saldatore a gas che ho portato da casa (made in Taiwan!), faccio le 4 mini saldature, rimetto il tubetto isolante termorestringente, risistemo i cavi e la cuffia della leva cambio. Incrocio le dita e faccio una prova. Evviva! Funziona tutto alla perfezione!

Grazie Papà per avermi contagiato con la passione per l’elettronica, per la tua calma e pazienza. Sapevi sempre risolvere i problemi, anche difficili, senza farti prendere dal panico.

Sollevato riprendo il viaggio che è già quasi sera. Arrivo a Elazig, dove scendo per un giro in centro. La via principale è in subbuglio e polverosa per i lavori di ristrutturazione dei larghi marciapiedi. Li stanno rifacendo in stile europeo, con scivoli per le carrozzelle, come accade già in molte altre città turche che ho visitato. L’aria è tiepida, e c’è molto via vai di gente e macchine. La cittadina non mi sembra granché, faccio un po’ di spesa mangio in una “lokanta”, e mi rimetto in macchina verso un altro campo.

Verso mezzanotte mi fermo su un altopiano tra montagne tondeggianti. La luna, ormai morente e giallognola è salita da poco, ed illumina debolmente. Mi rammarico del fatto che per buona parte del mio soggiorno in Iran non avrò l’amica luna a rischiarare le mie prossime notti. Ma tornerà rinnovata tra circa tre settimane, quando sarò ormai in vista del Pakistan!

30-04 Martedì:

Oggi me la prendo comoda. Non ho voglia di guidare, e rimango a lungo tra queste belle montagne verdi solcate da infinite greggi di pecore e capre. A volte mi piace stare fermo e osservare la natura specie in giornate variabili come questa.

Ora la monotonia del cielo terso si è interrotta per lasciare il posto ad un tempo ventoso e fresco. In lontananza si odono dei tuoni, mentre veloci nubi nere si rincorrono nel cielo. In fondo al vasto panorama vedo già la pioggia staccarsi dalle nuvole in sfilacciamenti percorsi da lividi lampi. In breve comincia a piovere anche qui, ma dura poco.

Dopo pranzo arrivano due pastori circondati da un enorme gregge di pecore belanti. Uno di loro mi saluta in tedesco, come fosse cosa normale che tutti i turisti conoscano questa lingua. Mi racconta che stanno camminando insieme al loro gregge, di circa 500 ovini, da 32 giorni e hanno già percorso 300 km. Si spostano a piedi, dormendo nelle campagne insieme al gregge, in cerca di pascoli migliori.

Dicono che hanno da compiere altri 100 km prima di fermarsi. Storie ordinarie qui nel Kurdistan turco, che mi riportano a vecchi ricordi dei nostri pastori e ai loro racconti di transumanze ormai dimenticate. Riparto quasi sera in cerca di nuove montagne.

01-05 Mercoledì:

La notte l’ho passata arrampicato a mezza costa di un monte disseminato di pietre immaginandomi un bel panorama, ma il risveglio avviene bruscamente con il picchiettare sul vetro alle 7 e 30.

Come immaginavo sono dei pastori, forse preoccupati per le loro greggi, che vogliono sapere chi sono. Parlano solo la loro lingua, ma ci capiamo ugualmente ed in breve si allontanano tra i pascoli seguiti dagli ovini. Proseguo a viaggiare su una stradina secondaria che ho preso ieri sera in cerca di un posto per dormire, attraversando vari villaggi kurdi aggrappati alle pendici dei monti nel pieno della fioritura primaverile. In fondo valle, tra le rocce scure, un bel fiume corre spumeggiante.

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La vita sembra scorrere tranquilla in questi luoghi sospesa tra passato e futuro.

Mi fermo per una foto, e una macchina con solo il guidatore, mi si accosta facendomi segno di seguirlo. Non capisco il perché, ma il conducente mi si presenta armato di Kalasnikov dicendomi di essere un militare.

Per evitare storie seguo la sua auto civile per le irte stradine di un bel villaggio sonnacchioso, immerso tra i pioppi dal tenero verde e dominato da una bella moschea.

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Ci fermiamo di fronte alla “Jandarma” del paese, da dove poco dopo arriva un ufficiale, stavolta in divisa. Solite domande di rito, ed in più vuole visionare le foto che ho scattato. Dopo averle viste una ad una e fatto un controllo del  passaporto, mi lascia andare consigliandomi però di riprendere la strada principale.

Nel caldo sole del pomeriggio, arrivo in vista del grandissimo lago Van attorniato dalla cittadina Tatvan. Mi concedo una lunga passeggiata sul lungolago gremito di gente.

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Caffè, giostre ed anche un trenino su ruote che porta i bambini in giro, rende l’atmosfera serena e vacanziera. Il lago maestoso, contornato da montagne scure zebrate di vecchia neve, si staglia azzurro quasi all’infinito. Dei traghetti solcano le sue acque calme trasportando turisti e auto da una parte all’altra della lontana riva.

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Nel vociante centro città faccio spesa e mangio in un bel ristorante panoramico posto dentro un luccicante centro commerciale.

Ricordo, per esserci stato tre anni fa, che non distante dal lago Van c’era un altro magnifico lago posto all’interno di un vulcano spento, Il Nemrut Golu. Impiego un po’ a trovare la sterrata che sale al vulcano e mi fermo a mezza via, tra l’erba. Sotto di me vedo le luci di Tatvan ed il suo lago che si perde all’orizzonte.

02-05 Giovedì:

Continuo a salire sulla strada sterrata per il lago. Sulla via polverosa sono in atto dei grandi lavori di sbancamento per allargare la vecchia strada panoramica, che da Tatvan, sale al vulcano spento Nemrut.

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Forse il governo locale ha deciso di turisticizzare maggiormente la già conosciuta località, o di rovinarla con ricettività turistiche, che ricordavo quasi assenti sul lago Nemrut, parco naturale.

Appena scollino il crinale del vulcano, appare un panorama mozzafiato: a destra il vasto lago Van nebbioso e distante, e a sinistra, dentro la caldera spenta del vulcano, due azzurrissimi laghi, uno dei quali più grande e ancora contornato dalla neve.

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Incontro qualche turista che sale dal lago con difficoltà sulla strada sterrata, ora resa un po’ critica dallo scioglimento della neve, che scorrendo in torrentelli, erode la sterrata creando dei profondi solchi fangosi. Riesco a scendere fino in fondo, sulla riva del lago,

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ma non riesco a godermi con tranquillità il paesaggio ripensando alla salita che mi attendere per uscire dal cratere, che in più parti si stava già sfaldando con lo scorrere dell’acqua.

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Usando il 4×4 riesco per fortuna ad uscire senza problemi dalla caldera, e sulla sommità incontro un gruppo di quattro ragazzi. Uno di loro mi fa cenno di fermarmi e mi saluta in italiano!

Sono infatti di Milano e stanno facendo un escursione sul vulcano. Sono dei viaggiatori d’altri tempi che per spostarsi usano i mezzi locali o l’autostop e per dormire cercano l’ospitalità della gente, offrendo in cambio il loro aiuto per i bambini bisognosi. Fanno parte di un associazione di Milano che si occupa di accudire i bambini sfortunati del mondo e quelli di strada in Italia. Un viaggio lodevole il loro, invece il mio che scopo ha?

La notte la passo a strapiombo su una scogliera verticale sul lago Van.

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Sono ormai vicino alla strada per la frontiera con l’Iran.

Dopo una lunga mancanza di connessioni wifi in Iran, cerco ora 31 maggio da Islamabad, di riportare quanto scritto nelle scorse tre settimane sul mio quadernaccio di viaggio, ormai ricolmo di pensieri ed appunti presi tra Iran e Pakistan.

Infatti questo “blog notes” nasce dalla carta. Io da sempre durante i miei lunghi viaggi scrivo quanto accade su un quaderno. La novità di questo viaggio è che cerco di riportare on line quanto scritto a penna giornalmente, o quasi.

03-05 Venerdì:

Meraviglioso risveglio a picco sul lago Van, con il sole che si riflette sulle sue acque increspate. Il vento teso fa crescere le onde che si infrangono sulla scogliera sotto me in boati e risacche. Sembra quasi un piccolo mare interno, vista la vastità. La strada costeggia il lago per almeno 100 km andando verso l’Iran. Abbandonato l’immenso Van, ora la via prende ad inerpicarsi tra montagne coniche, in paesaggi lunari, ricoperti di rocce vulcaniche nerastre. Tra le pietre laviche villaggi fatti di sassi, e campicelli strappati al poco terreno libero dalle antiche colate laviche.

La strada scollina un alto valico di oltre 2.000 m., oltre il quale appare un panorama da fine del mondo.

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Una alta montagna dalla forma perfetta e ricoperta di ghiaccio, si staglia con un contrasto incredibile sul contesto scuro circostante. La luce rada del tramonto che colpisce la cima del mitologico monte Ararat, rende il paesaggio fiabesco.

In serata arrivo all’ultima cittadina turca prima della frontiera con l”Iran, dove mi fermo a cena in una lokanta nel confuso centro. All’interno due grandi quadri raffiguranti uno il monte Ararat, con arenata sulla cima una gigantesca Arca di Noè con tanto di carovana di animali che ne discendono, e l’altro rappresentante il bellissimo forte-moschea di Ishak Pasa.

Decido di concedermi un hotel in questo paese di frontiera per festeggiare il viaggio fatto fin qui. Trovo un bell’albergo costruito di recente sulla via principale per la frontiera. E’ ben fatto e la camera pulita ed accogliente, ma dormo male. Il materasso è troppo duro, e poi non sono più abituato ai rumori che provengono dalla strada e dall’hotel. Avrei voluto rendere muto quel cane che abbaiava per quasi tutta la notte. Molto meglio il mio hotel viaggiante e panoramico!

04-05 Sabato:

Dopo una buona colazione, che in parte mi rimette in sesto dopo la notte insonne, decido di visitare il complesso di Ishak Pasa, che dista solo 7 km da qui. Quando ci giungo la maestosa fortezza di epoca ottomana, incastonato tra le rocce e con il monte Ararat sullo sfondo mi colpisce per la sua bellezza senza tempo.

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Mi par d’essere dentro una puntata di “Transasia”, del famoso documentarista  Pierluca Rossi e Enri, che nel 1999-2000 passavano di qui a bordo di un camper, e con uno scooter al seguito, in un lunghissimo viaggio verso il Nepal filmandone le varie tappe. Io rimasi folgorato dalle loro immagini, e all’epoca non avrei mai pensato che un giorno mi sarei trovato a seguire i loro passi. Ciao Pierluca e Enri, quest’oggi il mio pensiero va a voi, ispiratori di lontani viaggi.

Mi rendo conto che sono già le 13 e 30 e devo affrettarmi a raggiungere la frontiera che dista ancora 45 km da qui. Oggi è il giorno ultimo per usare il visto iraniano, dopodiché tutto il tragitto fatto fin qui diverrebbe inutile. Durante l’avvicinamento al confine il monte Ararat mi segue alla mia sinistra.

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Ore 14 e 30, km auto 63.232. Frontiera Turchia-Iran:

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Dopo aver ascoltato la rassicurante “musica” della timbratura del passaporto, in un quarto d’ora sono fuori dalla Turchia. Di là, sul versante iraniano, da un grande quadro, i volti severi ed accigliati di Kamenei e Khomeini, mi osservano magnetici ed enigmatici. Mi accetteranno nella terra dei Parsi? Non c’è quasi nessuno, a parte i soliti camionisti che fanno una fila a parte, ed un piccolo bus. Vedo una donna scenderne e prontamente avvolgersi in un chador scuro, scomparire nella costruzione frontaliera.

E’ il mio turno, comincia il “balletto” dei controlli. Il primo militare che sfoglia il mio passaporto mi gela dicendomi che il visto iraniano scade oggi! Cerco di spiegargli che la data del 4 maggio riguarda il termine ultimo d’uso del visto, ma una volta timbrato l’ingresso in tempo utile, il visto ha una durata di 30 giorni. E poi c’è scritto sopra, anche se in inglese. Forse il milite non sa leggere, o forse, più probabilmente, fa parte di un gioco di squadra che mira a sfilare quattrini ai pochi turisti che capitano qui. Lui, non sentendo le mie ragioni, mi ridà il passaporto dicendomi “visa problem!”. Ed ecco come da copione, apparire il trafficone di turno, che fiutato l’affare mi si avvicina mellifluo. Ha l’aspetto del classico “mafioso”: smilzo e dondolante, il volto allungato, stempiato, con un grande naso cadente su un sorriso finto. Mi sembra una delle caricature migliori del nostro Tony Servillo in una delle sue più riuscite interpretazioni in film sulla camorra.

“Hallo my friend!”, sono le sue prime parole in un inglese stentato, mentre mi da la mano scivolosa. Non vorrei cadere nelle grinfie di certi loschi figuri, ma pare che quasi ti ci obblighino. Non sono ancora riuscito a capire se questi personaggi lavorano qui, o sono tollerati e d’accordo con i funzionari in divisa. Sta di fatto che “lo smilzo”, con il suo modo di fare viscido e scivoloso, entra ed esce dalle varie stanze della grande costruzione doganale, dove sembra che tutti lo conoscano, con facilità.

Passa avanti alla moltitudine di camionisti raggruppati in confuse file tutti con in mano “carnet” sgualciti. “Lo smilzo” sgattaiola di qua e di là, stingendo mani, abbracciando militari e doganieri. Poi scompare!

“Dove sarà finito?” penso sconsolato, realizzando che ho dato i miei documenti in mano ad uno sconosciuto. Qualcuno mi dice: “è di là, in quella stanza laggiù”, ma quando entro nello stanzino ricolmo di scartoffie, lui già non c’è più. Per fortuna lo trovo in un altra stanzetta piena di gente, con due scrivanie cariche di fascicoli polverosi ed un pc spento dai cavi penzolanti. “Lo smilzo” ha in mano il mio nuovissimo “carnet”, e non sta “in fila” come gli altri, ma è dietro la scrivania e sta riempiendo i vari formulari doganali. In più timbra lui stesso il mio Carnet de Passages en Douanes! Dopodiché se ne va salutando ancora una volta i doganieri lì presenti nel baillame generale. Mi riconsegna il passaporto con il timbro regolare dell’ingresso in Iran, ed il “carnet”, che controllo essere stato compilato esattamente. “Lo smilzo” mi dice: “welcome to Iran, ora puoi andare”.

Monto in macchina, gli do 20 Euro per il servizio, cambio 50 Euro in un mazzo di Rial da un altro ceffo, e passo in Iran, verso l’ultima barriera dove vengo fermato. Manca ancora un timbro, quello della maledetta tassa sul carburante, altissima per il gasolio, come nel mio caso. Si materializza subito un altro trafficone che si offre per risolvere il problema. Gli dico che l’auto è a benzina (anche se lui sentendo il motore si accorge del caratteristico ticchettio Diesel, che gli dico essere il motore benzina un po’ fuori fase). Lui entra, con in mano il foglietto con il timbro mancante, in un nuovo edificio governativo irto di scritte in persiano, con sopra l’onnipresente foto di Khomeini.

Dopo un tempo indefinito, ne esce vittorioso sventolando il fantomatico foglio della tassa carburante timbrato! Mi accompagna all’uscita, i militari lo controllano e aprono il cancello sul confuso mondo iraniano. Il traffichino mi chiede 10 Euro per il disturbo, ed incredulo mi ritrovo a guidare nel convulso traffico della cittadina frontaliera.

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Al primo distributore faccio il pieno di gasolio. Un litro costa 10 centesimi di Euro! Passo di fronte ad un forno, dal quale si sprigiona un buonissimo aroma di pane, ne chiedo uno ed il fornaio mi porta una enorme gustosissima focaccia appena sfornata. Il panettiere non vuole niente mentre mi dice “welcome to Iran”.

Un ragazzo che parla un po’ di inglese, incontrato dal fornaio, si è offre subito per aiutarmi a trovare un ristorante. In breve, quasi senza accorgermene, mi ritrovo a cena attorniato da gente curiosa che vuole sapere da dove vengo e dove sto andando, nella prima cittadina iraniana che incontro a gustare un ottimo “guigia kebab” (spiedino di pollo con riso, l’unica cosa che so ordinare in ligua farsi). L’atmosfera è amichevole e rilassata, tutti mi salutano poggiandosi la mano destra sul cuore.

Già, la famosa ospitalità persiana. Immagino che sarà piacevole l’attraversamento del grande Iran.

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La notte la passo appollaiato in cima ad una collina con di fronte le immense distese dell’altopiano iraniano.

IRAN:

05-05 Domenica:

Il primo risveglio iraniano spazia a 360 gradi in ogni direzione. Le colline circostanti ricoperte da fiori gialli e papaveri rossi diffondono nell’aria un profumo pungente. Oggi riposo a lungo per riprendermi dalla stanchezza e dalle emozioni di ieri. Ho un mese intero per attraversare l’Iran e raggiungere il Pakistan, quindi ora posso cominciare a rilassarmi godendomi il viaggio che lentamente va schiudendosi, come un fiore a primavera, verso l’Asia.

Anziché andare subito nella prima grande città di Tabriz, voglio fare una deviazione verso Urmia ed il suo particolare lago salato. Per fare ciò vado verso sud, lasciando la strada principale per Tabriz, addentrandomi poi in una stradina sinuosa che si infila tra montagne brulle ma dalle vallate ombrose di pioppi.

Nei piccoli villaggi che attraverso, noto delle donne avvolte nei chador neri che si muovono come macchie scure svolazzanti al vento serale. Nelle cittadine invece, le giovani iraniane indossano pantaloni scuri attillati, o jeans, e giacchette aderenti con in testa fazzoletti colorati, dai quali spiccano acconciature spesso tinte di biondo. Si muovono elegantemente lasciandosi dietro persistenti scie di profumo.

Cerco di abituarmi alla guida senza regole iraniana, specialmente nell’affrontare “al volo” le rotatorie, sempre presenti nelle città ed ai maledetti dossi rallentatori sparsi qua e là a tradimento nei centri abitati.

Mi fermo poco prima di una rotatoria a studiare il comportamento dei veicoli, che con maestria si intersecano e abbandonano il flusso rotatorio senza rallentare. Sembra il movimento di un gigantesco ingranaggio costantemente in movimento. Chi ci si ferma in mezzo è perduto, fagocitato dagli altri mezzi. Prendo coraggio e mi avvio. In prossimità della rotonda mi accodo senza rallentare ad un’auto che è già “sulla giostra”, entro nell’ingranaggio, e ne esco, schivando al centimetro tutte le altre. E’ fatta!

Poi per capire dove sono i dossi, quasi invisibili da lontano, mi basta osservare le altre macchine che all’improvviso vedo saltare in aria! I dossi sono di vari tipi: da quelli piccoli di plastica dal botto secco, a quelli di asfalto alti 20 centimetri a sella d’asino, che se non si prendono a 20 all’ora si rischia di saltare sulla macchina davanti.

E’ una scuola guida che mi aiuterà nel traffico sempre più caotico che incontrerò viaggiando verso il Nepal.

A sera mi fermo a Salmas per cena in un nuovo e ben messo ristorante dove servono anche bevande americane. L’interno luccica ed è pulitissimo. I camerieri , come un cliente se ne va, immediatamente puliscono i tavoli ricoperti di vetro con il “vetril”. Su un bancone self service sono esposte varie qualità di insalate. Ne approfitto per un ottima insalata mista con carote, pomodori e fettine di cetrioli.

Senza chiedere mi portano anche una buona zuppa di riso e pomodoro leggermente piccante con sopra pezzetti di basilico fresco. E ovviamente non poteva mancare uno spiedino di pollo!

Arriva un gruppo di persone eleganti, uomini e donne. Quando si sistemano al tavolo realizzo di essere realmente in Iran, dove vige un ferreo “galateo” in pubblico.

I maschi si siedono tutti da un lato del tavolo e dall’altro le donne indaffarate a sistemarsi i veli, e a chiacchierare tra loro. Ad un altro tavolo noto invece un ragazzo ed una ragazza allo stesso tavolo, uno di fronte l’altra, scambiarsi sguardi ammiccanti.

Prima di uscire parlo un po’ con il gestore del ristorante e con il cuoco, il quale conosce qualche parola di inglese. Il discorso verte sulle prossime elezioni iraniane che avverranno il prossimo mese. Evidentemente i miei interlocutori non sono degli estimatori del governo attuale, e condiscono con eloquenti gesti la loro speranza di un cambio al vertice.

“Ahmadinejad deve andare a badare alle pecore”, dicono mimando di dargli un calcio nel sedere! Immagino che questa discussione finirebbe male se qui fosse presente qualche “guardiano” del governo.

La notte la passo in un campo pietroso arato di fresco.

06-05 Lunedì:

Caldo risveglio tra le colline mitigato da un vento deciso. Nel pomeriggio arrivo finalmente in vista del lago di Urmia. E’ un enorme lago salato, ora in buona parte prosciugato, che si perde all’orizzonte con la sua distesa di sale, accecante nella luce radente della prima sera. La strada lo attraversa rialzata dalla superficie secca e salata. Più avanti un lungo ponte passa sopra quel poco di acqua carica di sale che è rimasta. Il panorama alla luce del tramonto è da fine del mondo: una vasta distesa d’acqua color ruggine mossa dal forte vento che si infrange con forza contro blocchi di sale bianchissimo da sembrare ghiaccio. Mi fermo incantato dallo spettacolo della natura, nell’aria un forte odore salmastro.

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Continuo la strada che porta alla grande città di Tabriz, ma quando vedo un cartello indicare Kandovan, decido di andare a visitare questo particolare paese scavato nella roccia. E’ notte ormai e mi fermo a dormire tra colline ventose. Secondo il gps sono a 20 km da Kandovan.

07-05 Martedì:

Seguo la “freccia” del gps che mi indica la direzione e distanza da Kandovan, visto che ora le poche indicazioni stradali che incontro sono scritte in farsi. La piccola e curvosa strada, dopo aver valicato un passo a quota 2.300 m., finisce in un villaggio addossato ad una montagna rocciosa. Il paese è un tutt’uno con il panorama circostante, quasi mimetizzato, costruito interamente di roccia e argilla, con alcune abitazioni scavate nella montagna. Tutt’intorno un viavai di pecore belanti, capre e muli. Dalle strette via di terra del paese si levano fischi di pastori e gridolini di bambini. Sui tetti piatti delle casupole lo sterco miscelato al fieno, appiattito a forma di piccole ruote, lasciato ad essiccare al sole.

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Il gps indica Kandovan a 5 km in linea d’aria proprio di fronte a me, oltre la montagna-paese, ma non c’è più strada. Tutto si ferma qui, in questo luogo senza tempo.

Un vecchio, che era intento a zappare un piccolo orto strappato alle pietre mi raggiunge. Provo a dirgli “Kandovan”, e lui mi dice qualcosa indicandomi di valicare la montagna a piedi. Mi ha appena incontrato, e già mi invita a prendere un tè! Qui in Iran vige un rispetto quasi sacro per l’ospite.

Lo so, il “paese nella roccia”, una sorta di Cappadocia iraniana, è lì dietro, ma irraggiungibile da qui in macchina. Arriva anche il figlio del vecchio, che mi fa capire che c’è un’altra strada che fa un giro più largo e arriva a Kandovan. Ma io non capisco le loro indicazioni e me ne torno da dove sono venuto, mentre il villaggio-roccia s’avvolge di barlumi rossastri dei focolari antichi.

A sera inoltrata mi confondo nel traffico della città di Tabriz. Barcamenandomi  tra le auto, motorini e carretti, riesco ad arrivare di fronte alla “Moschea Blu”, che è ormai chiusa, ma i giardini attorno ad essa sono ancora aperti.

E’ bello passeggiare per i bei viali profumati dagli alberi in fiore. C’è parecchia gente seduta sulle panchine intenta in conversazioni, per me incomprensibili. “Dovrei studiare il farsi”, penso tra me mentre proseguo verso il centro città.

Ora mi attende un’altra prova di coraggio e sprezzo del pericolo: un passaggio pedonale! Come si fa in Iran ad attraversare la strada se, anche sulle strisce pedonali, le macchine non si fermano? Semplicemente si attraversa facendo finta che le auto che ti sfrecciano intorno non esistano, come fanno tutti pedoni qui.

Senza altre alternative uso la stessa tecnica dicendomi “banzai!”. Un altro esame pratico passato. Ora che ho anche una sim card gsm “Irancell” con numero iraniano, acquistata ieri ad un bazar, comincio a sentirmi uno del posto.

In una via centrale, vicino alla zona pedonale, dove sembra che si vendano solo vestiti, trovo un bel ristorante tra vecchi palazzi.

Dentro inaspettatamente è uno spettacolo, ricavato all’interno di un antico haman del 1600. La sala da tè circolare dove mangio è sormontata da un affascinante tetto a cupola dalle decorazioni di forma geometrica, che si ripetono nella bella fontana posta al centro della vasta stanza. Collocati circolarmente attorno alla fontana centrale, dei bassi tavolini sono posti al centro di piattaforme coperte di tappeti dove si può mangiare stando comodamente sdraiati su un fianco.

Uno dei camerieri, Hassan, parla inglese e mi confida che anche lui spera in un cambio al vertice nelle prossime elezioni iraniane. Dice che vorrebbe addirittura emigrare all’estero, forse a Mosca, in cerca di un salario migliore, visto che qui il compenso mensile si aggira nella media iraniana di 300 Dollari. Appena sufficienti per vivere. Continua dicendo che solo chi ha una laurea può aspirare a qualche mansione molto ben retribuita nel governo, o a diventare ingegnere.

Ma, afferma, “è la solita storia, una specie di casta benestante che può permettersi di far studiare i propri figli nelle università migliori continuando la saga del successo finanziario. Per la gente normale come me, se vuole uscire dalla mediocrità generale, non c’è altra scelta che la fuga all’estero. Io amo il mio paese dove sono nato ed ho famiglia, ma non vedo altra via.”

Chiedo ad Hassan informazioni sul lago di Urmia che ho visto ieri. Mi dice che fino a circa 15-20 anni fa era interamente ricoperto d’acqua, e che ora si sta prosciugando a causa di alcune dighe per energia elettrica costruite vari anni fa sul corso dei fiumi che lo alimentano.

Infatti, ricordo di aver visto ieri un vecchio pontile sbilenco sulla riva secca, e un abbandonato sito balneare dotato ancora di scrostate e sbiadite piccole imbarcazioni a forma di cigno, a ricordo di un passato fiorente di turismo.

“Il governo non ha abbastanza cura nell’ambiente. Se avessero voluto il lago si sarebbe potuto preservare.” Conclude Hassan.

Appesa ad una parete mi accorgo ora di una bella foto che ritrae un paese scavato in guglie di roccia. Dico ad Hassan: ” ma quella è Kandovan! L’ho cercata per un giorno intero senza trovarla!” Lui risponde: “certamente, è a 70 km da qui, oggi ci ho accompagnato 4 turisti, Si raggiunge in un’ora di macchina. Ricavate nella roccia ci sono varie botteghe di artigianato e sale da tè”. Ma forse è stato meglio visitare un vero “paese-roccia”, penso tra me.

Visto che ho tempo a sufficienza per girare l’Iran, chiedo ad Hassan della mia idea di fare un’altra deviazione per vedere il mar Caspio. Lui approva la mia idea. “Così potrai vedere l’aspetto verde e rigolgioso dell’Iran!”.

Notte in un campo in direzione nord, verso il mar Caspio.

08-05 Mercoledì:

Il rumore di un trattore che sta arando i campi intorno me mi da la sveglia! Devo sbrigarmi ad andarmene, prima di rimanere intrappolato in una specie di isola circondata dai profondi solchi dell’aratro.

Il tempo sta cambiando, oggi ventoso e nuvoloso. Vedo nere nubi cariche di pioggia in direzione delle montagne che devo attraversare per raggiungere il mar Caspio. Infatti, mentre ci guido in mezzo piove a dirotto e la temperatura si fa fresca.

La strada si infila tra monti color ocra semi desertici, ma dalle vallate ombrose di pioppi e gorgoglianti di fiumi ruggenti che vanno verso il grande mare interno (o il lago salato più grande del mondo?).

Sono sul vasto altopiano iraniano, brullo e sabbioso un po’ ovunque. Ma qui improvvisamente il mondo pare aprirsi dietro uno scollinamento. La strada prende a scendere decisa in stretti tornanti, e l’altopiano si apre ad ampie fenditure dove la natura cresce lussureggiante.

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Sembra di essere in un altro luogo. I monti si fanno interamente ricoperti di fitta boscaglia, che mi ricorda certe parti dell’Umbria intorno Narni. Anche l’aria cambia, e si fa da secca e arida, a umida e calda, quasi tropicale!

Lungo la via un susseguirsi di negozi e banchetti che vendono miele e frutta. Continuo la discesa in questo strano ed inaspettato “nuovo mondo”, fino a che la vallata si apre sempre più verso il mar Caspio che intravedo in fondo al panorama. Lungo gli argini del vasto fiume, prima di tuffarsi nell’ancora distante mare, si schiude uno spettacolo tipicamente orientale, quasi indiano o nepalese.

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Ogni dove, a perdita d’occhio, risaie ricavate in terrazzamenti di fango ricolmi d’acqua, vegetazione fittissima e frutteti. Un particolare microclima umido totalmente diverso da quello secco di buona parte dell’Iran.

Mi tuffo in questa inaspettata realtà verde, pensando di arrivare al fantomatico mar Caspio, che già più volte ho cercato di raggiungere senza risultati in altri viaggi sul suo versante russo, ma rimango intrappolato in un caoticissimo traffico in stile indiano nei vari paesi che si susseguono attorno al mare, che da qui neanche si vede. “Deve essere poco più a nord” penso tra me mentre prendo varie stradine che si perdono tra vicoli polverosi, per poi finire. Provo più volte, riesco anche ad intravedere il Caspio in lontananza tra le case, ma rimane una specie di miraggio.

E io che già sognavo di parcheggiarmi sulla riva e dormire vicino alle sue onde. Invece si fa sera e sono obbligato a seguire il fiume di macchine che si sposta senza regola. Per fortuna trovo una stradina che risale le risaie e si infila nel fitto della boscaglia. Spossato, trovo finalmente una radura in uno strano boschetto pieno di felci e muschio vicino ad un ruscello. Cade una pioggerella fina e gli uccelli si esibiscono in canti assordanti con sottofondo di gracidare di rane.

Notte quasi indiana.

09 e 10 – 05 Giovedì e Venerdì:

Gli uccelli che cinguettano come forsennati e la pioggia lieve mi da il buongiorno, in questo strano bosco verdissimo dove non c’è un pezzetto di terreno libero da piante o alberi. Arriva qualche mucca. Una di queste sembra un bufalo orientale, con le sue lunghe corna ricurve e la gobba prominente appena dietro il collo. Ruminano l’erba e mangiano le foglie degli alberi tirando con forza i rami, mentre mi preparo per ripartire.

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Immagino che anche questa volta dovrò rinunciare all’idea di vedere da vicino il mar Caspio. Ho deciso infatti di prendere la strada che torna a salire sull’altopiano e andare a Tehran. Non che abbia qualcosa di particolare da fare nella capitale iraniana, ma il mio viaggio verso oriente passa per quella città.

Scendo nel caos “indiano” che circonda l’invisibile mar Caspio, riesco ad uscirne e mi infilo sula trafficata autostrada che riprende a salire verso i desertici altopiani, in direzione di Tehran.

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Mi fermo a cena in un luccicante e moderno “autoglrill” sulla levigata autostrada a tre corsie per la capitale. Il parcheggio è pieno di auto e bus che tornano verso la grande città. Osservo le belle ragazze iraniane, truccatissime dai vestiti colorati ed aderenti con foulard appena poggiati dietro i capelli tinti di biondo o rossi, portato come un accessorio alla moda. Qui sembrano molto più moderne ed emancipate rispetto alle loro coetanee dei piccoli paesi di campagna.

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Qui il “giugia kebab” mi costa il doppio del solito, 250.000 Rial (circa 5 Euro), più che nel bellissimo ristorante “haman” di Tabriz! Comunque sia sto spendendo pochissimo, considerando che i 50 Euro che ho cambiato il 4 maggio al nero in frontiera, non sono ancora riuscito a spenderli. E si che ci ho fatto tre pieni di gasolio, mangiato in tre o quattro ristoranti, acquistato varie bottiglie d’acqua, pane e dolcetti per la colazione!

La sera si mette male nel traffico impazzito dell’autostrada per Tehran, che raggiungo ormai a mezzanotte. Mi dirigo verso il punto gps che tre anni fa avevo chiamato “hotel Tehran”, un posto tranquillo e panoramico per passare la notte che avevo scovato sulle coline alla periferia della città. Dopo una mezz’ora trovo il posto che sta in cima ad una ripida salita sterrata che si fa solo in 4×4 (fortuna che pure la Dacia ce la fa!). Ma qualcosa è cambiato. Il viottolo che prendevo a sinistra poco prima della cima, che dev’essere un luogo di culto, e raggiungeva il “mio hotel”, è sbarrato da una catena e da delle pietre.

Mi fermo pensieroso e stanco di fronte allo spettacolo del vastissimo tappeto di luci di Tehran che si estende di fronte a me. Decido di lasciar perdere la capitale e di dirigermi verso la “Città Santa” di Qom, sicuramente più interessante di Tehran. “Almeno a quest’ora l’uscita dalla città da più di 12 milioni di abitanti sarà più fattibile, e troverò un campo libero appena fuori la metropoli”, penso tra me mentre seguo l’ago del gps che mi indica l’est.

Notte stellata dal vento secco tra sabbiose colline a circa 60 km da Qom.

11-05 Sabato:

Caldo risveglio assolato nel deserto dell’altopiano iraniano a quota 1.500 m. L’aria secca calda, ventosa e carica di sabbia, ricorda il nord Africa. In lontananza la piatta distesa biancastra di un antico lago.

E pensare che solo l’altro ieri mi trovavo immerso in quello strano microclima “indiano” vicino al mar Caspio. L’Iran è una vastissima nazione dai vari climi. Da quello secco e desertico dell’altopiano, a quello freddo delle alte montagne, passando per quello temperato e umido del Caspio. E a sud, sul Golfo Persico come sarà? Chissà, magari se mi andrà farò una deviazione laggiù a rimirare il mare.

Nel tardo pomeriggio arrivo a Qom la “Città Santa”, sede del clero sciita. Nel solito caotico traffico iraniano, un santone, fermo in mezzo alle auto che gli girano intorno, agita nell’aria con movimenti circolari un bruciatore con dentro delle spezie fumanti, chiedendo qualche spicciolo contro la malasorte. Ma l’odore acre e pestilenziale che lo avvolge non pare riscuotere molto successo tra gli automobilisti, che continuano la loro corsa, come se stessero partecipando tutti insieme ad un rally cittadino. Continuando nel fiume di macchine, arrivo in un’oasi di pace, dove riesco a parcheggiare di fronte ad un hotel. Mi trovo vicino all’enorme complesso di moschee del centro città, il quale mi ricorda San Pietro per l’ampiezza. Rimango affascinato dallo spettacolo del tramonto che si riflette sui minareti coperti di sfavillati lapislazzuri, e sulle grandi cupole dorate.

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E’ un luogo carico di un atmosfera magica e intriso di sacralità, frequentatissimo da moltitudini di fedeli, non solo iraniani ma provenienti anche dall’Arabia Saudita e dall’Afghanistan.

Noto con piacere che i bassi scalini che dividono le varie aree sono dotate di rampe per disabili, e all’ingresso del vasto complesso c’è un ufficio sanitario dove vengono date in prestito delle carrozzelle per le persone bisognose.

Mi confondo tra i fedeli che calcano le antiche pavimentazioni fatte di lastre di pietra irregolare, ed entro nel primo cortile interno. La sera sta scendendo e i minareti che lo circondano si illuminano di luce verde e le cupole di luce dorata, che rende il posto incantato e fuori dal tempo. Al centro dell’amplissimo cortile zampillano fontane illuminate da luci che cambiano di colore, mentre dall’alto risuona forte il canto del Muezzin.

I fedeli ed i mullah, avvolti nei loro eleganti mantelli color nocciola con in testa bianchissimi turbanti,  si affrettano per le abluzioni e si avviano verso un altro grande cortile ancora più interno al vastissimo complesso sacro. L’interno della moschea, ricoperto da splendenti frammenti di specchi riflette le luci e le persone. Qui si radunano in preghiera, mentre nell’aria si diffonde un aroma carico di spezie ed incenso. Rimango incantato in questo luogo per un tempo indefinito. Io non sono un credente, ma certi luoghi mi affascinano e mi rendono parte partecipe dell’ambiente di pace che li circondano.

Quando ne esco è notte, e le vie vicine sono ingombre di negozietti illuminati che vendono di tutto. Da oggetti di culto, al vestiario e borse, passando per dolciumi e fast food. Tutt’intorno placidi e ben tenuti giardini ombrosi di alberi, aiuole curatissime fiorite e fontane illuminate.

Tornando alla macchina, mi viene voglia di vedere l’hotel, dotato anche di rampa d’accesso. Non è male con un comodo ascensore. Anche la stanza è bella e spaziosa, ma un alto scalino per accedere al bagno mi fa abbandonare l’idea. Mi fermo comunque a cena nel ristorante al piano terra.

Qui faccio la conoscenza con alcune persone di origini afghane, che però vivono in Canada. Sono di etnia Hazara, li riconosco per via del volto dai tratti mongoli. Le orde mongole raggiunsero infatti anche l’Afghanistan e si stabilirono specialmente a nord, nella zona di Bamian.

Parlo con alcuni di loro che si stanno rimpinzando di pizza ricoperta di ketcup, acquistata in un fast food di fronte. Sono amanti della pizza pensando che quella cosa gommosa che stanno mangiando sia una “vera pizza italiana”.

Racconto di quando raggiunsi la loro nazione nel 2007, e del viaggio che sto facendo ora verso il Nepal.

Loro mi dicono: “Tornando dall’India, per cambiare strada, dopo il Pakistan potresti andare in Uzbekistan attraversando l’Afghanistan. In Pakistan potrai ottenere facilmente il visto afghano”.

Già sarebbe una bella variante che avevo già valutato, ma ne ho ancora di tempo per pensarci! Esco dalla magica città in cerca di un campo libero dove passare la notte. Mi fermo nel deserto, non distante dall’autostrada per la sognante città di Esfahan.

12-05 Domenica:

Mentre sto per abbandonare il posto dove ho dormito, arriva un fuoristrada con delle persone che mi dicono che questa è zona militare.

Si identificano come “quasi militari”, anche se sono in abiti civili, e gentilmente mi chiedono il passaporto. Dopo essersi scritti i dati ed aver preso il numero di targa, li comunicati via radio a non so chi. Poi mi salutano invitandomi a lasciare la zona quanto prima.

Ormai sera giungo ad Esfahan, città poetica e sognante, una delle principali mete turistiche iraniane. Parcheggio non distante dalla famosa e vastissima piazza centrale di Naqsh-e jahan, vicino a due alberghi. Provo il primo, ma non ha neanche l’ascensore, il secondo poi, anche se sembra lussuoso, ha un alto gradino all’ingresso e riesco a vedere parte della bella hall, dove eleganti e marmoree rampe di scale la fanno da padrone.

Meglio lasciar perdere l’idea di tradire il mio comodo “hotel” su ruote. “Vorrà dire che farò un giro per la città nel fresco della sera. Esfahan diurna l’ho già vista tre anni fa.” Mi dico mentre m’incammino verso il centro.

La vista dell’enorme piazza, circondata da un lunghissimo porticato con all’interno il bazar centrale e sormontato da antichi palazzi e moschee, mi lascia ancora una volta stupefatto. Mi ricorda un po’ piazza Navona, ma almeno tre volte più grande.

Al centro delle belle fontane zampillanti incorniciano magicamente la vista dell’insieme circondato da giardini fioriti. Ogni città iraniana è una specie di oasi di verde nell’ambiente semidesertico circostante, con sempre bei viali dai giardini curatissimi da giardinieri che provvedono ad innaffiarli con grandi quantità d’acqua, ma qui la cura pare quasi maniacale.

Anche ora che son le nove di sera, ci sono dei giardinieri intenti nel curare le perfette aiuole o ad innaffiare l’erba verdissima. Ma tutta questa cura non vieta di vivere la frescura della sera in questa vasta oasi di pace. Infatti, come sempre accade durante i caldi finesettimana un po’ in tutti i giardini delle città iraniane, intere famiglie si attrezzano per banchettare sull’erba vicino al fresco delle fontane. Sono dotati di tutto il necessario per lunghi pic-nic: un grande telo steso a terra piatti posate e bicchieri, e al centro grandi fornelli a gas dove si cucinano la cena. Alcuni  ci rimangono anche a dormire in particolari tende dalla forma che ricorda un po’ un tulipano.

Nessuno disturba, la quiete regna sovrana. Soltanto il chiacchiericcio della gente, il gorgoglio delle fontane ed il rumore degli zoccoli di cavalli, che agghindati trasportano bianche carrozze ricolme di turisti attorno alla magica piazza.

Il bazar sta ormai chiudendo, e la gente comincia a rientrare nelle proprie case affollando di auto le vie circostanti la zona pedonale. Mi fermo a cena in un bellissimo ristorante, che già conosco sotto i porticati del bazar.

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Osservo le pareti ricoperte da meravigliosi affreschi  intervallati da motivi floreali incorniciati da frammenti di specchi incastonati nelle pareti. Anche qui, nella sala centrale di forma rettangolare, una fontana zampillate con tutt’attorno i tavoli. I gestori si ricordano di me, e quando sto per andar via delle persone mi salutano in italiano! Sono degli ingegneri iraniani che hanno lavorato all’estero, Italia compresa. Uno di loro conosce abbastanza l’italiano, parla perfettamente l’inglese, il francese ed altre lingue.

Anche loro sono interessati a conoscere i particolari del viaggio che sto facendo, ma è tardi e devo trovarmi un posto per la notte, quindi saluto presto i miei interlocutori che mi chiedono in quale hotel alloggio. “E’ un po’ fuori città”, rispondo lasciandoli sul vago. Chissà cosa penserebbero se sapessero che dormo sempre nei deserti iraniani!

Campo notte a tarda ora 50 km oltre Esfahan.

13-05 Lunedì:

Risveglio nel deserto ventoso ricoperto da bassi cespugli radi.

Ho deciso di fare un’altra variante sul percorso verso la frontiera con il Pakistan, per raggiungere la città di Yazd, magica per il suo vecchio centro storico ancora tutto costruito d’argilla, e dai bazar-cunicoli, sormontati dalle “torri del vento”, che mantengono una fresca ventilazione dentro ad essi. E’ lontana da Esfahan, e a sera mi fermo a cena in una cittadina a 80 km da Yazd, dai giardini ombrosi con fontane al centro.

Mangio un ottimo “giugia” immerso nel verde di un boschetto vicino al parco cittadino. L’anziano gestore del bel ristorante mi racconta dei suoi trascorsi da viaggiatore per l’Europa trent’anni fa, prima della sanguinosa e inconcepibile guerra Iran-Iraq. Racconta di particolari agghiaccianti con commozione e trasporto, come se li stesse rivivendo ora.

Parla di gente che veniva trucidata per le strade, e poi dei gas iracheni che uccisero migliaia di persone inermi. “Come si può concepire una simile barbaria, nessuna religione parla di uccidere i propri simili, nessuna!” Mi dice nel suo inglese un po’ stentato che cerca di ricordare.

Riprendo il viaggio pensando di fermarmi a dormire nel deserto qualche decina di chilometri prima di Yazd, ma senza accorgermene mi trovo già in città! ”

Ed ora, dove vado?” penso mentre giro senza meta per la grande città attardata.      Mi fermo a fianco di un taxi, e chiedo all’autista se conosce un hotel. Lui immediatamente risponde. “seguimi, ti ci accompagno io!”. Prendiamo a correre per le vie cittadine, ora per fortuna con un traffico vivibile, visto che è già quasi mezzanotte. Si ferma di fronte ad un lussuoso hotel in centro, va a chiedere, ma torna dicendomi che è completo.

Riprendo a seguirlo, mentre prende per l’aeroporto e ci allontaniamo dal centro. Corre come un pazzo con la sua Peugeot 405 Pars, una delle auto più in voga qui prodotta in Iran, finché non entriamo in un grande parcheggio custodito di un vasto hotel da nababbi, stile Arabia Saudita!

Il tassista entra nello sfavillante hotel Safaiyed, e torna poco dopo dicendomi che hanno delle camere disponibili, anche attrezzate per disabili. E’ tardissimo, sono stanco e cerco di adattarmi all’idea di trascorrere la notte qui, provando di non pensare a quanto mi potrà costare.

L’albergo a cinque stelle mi appare mastodontico mentre mi ci avvicino seguito dal bravo taxista. L’interno lussuoso, marmoreo e zampillante delle immancabili fontane mi accoglie. Ho quasi paura a chiedere il prezzo per una stanza.

Il gentilissimo albergatore mi scrive il prezzo su una calcolatrice: 1.340.000 Rial, corrispondenti a 34 Euro! “Accidenti, allora forse faccio una follia e ci rimango due notti in modo da visitare bene Yazd”, penso tra me mentre pago i 100.000 Rial (il prezzo di uno “giugia kebab” ad un ristorante medio) al taxista, che mi saluta con un mezzo inchino poggiandosi la mano sul cuore.

L’albergatore mi dice che se pago anticipato per due notti mi può fare anche un piccolo sconto extra. Me la cavo con 65 Euro, due notti e due colazioni. Un impettito portiere mi accompagna all’ascensore color oro fino al primo piano. La stanza che mi hanno dato è grandissima, dotata di un grande bagno perfettamente attrezzato per disabili. Mi consegnano anche un cartoncino con su scritta la password per la connessione internet, ma valida solo per due ore.

Provo a connettermi, ma come digito l’indirizzo del mio sito o anche Gmail, i solerti filtri iraniani, forse antiamericani, mi reindirizzano su, per me, incomprensibili pagine internet scritte in farsi! Riprovo inutilmente qualche volta, ma niente da fare, neanche la mia mail su Tiscali è raggiungibile. Scopro però che Wkipedia è miracolosamente visibile. Forse è sfuggita ai controllori iraniani, o forse sta a loro simpatica, chissà, misteri persiani.

Spengo tutto e mi abbandono ad una notte stranamente senza stelle ne vento, ne vasti spazi desertici attorno, pensando alle meraviglie che mi attendono domani nella città vecchia, a sette chilometri da qui.

14-05 Martedì:

Risveglio un po’ sintetico e “condizionato” dall’aerazione interna, fin troppo efficiente. Durante la notte mi son dovuto coprire come fosse quasi inverno, mentre fuori il sole già brucia!

Una delle cose che non mi piace degli alberghi è, a parte il costo, il fatto di avere degli orari prestabiliti. Quello della colazione ad esempio, che qui è fino alle 10. Non ho potuto neanche dormire quanto avrei voluto per non far tardi. Certo ci sono anche dei vantaggi, come quello di trovarsi già in città, ma non molto valido in questo caso, visto che l’hotel Safaiyed dista sette chilometri dal centro di Yazd.

Raggiungo la cittadella vecchia, costruita in mattoni di argilla ricoperta di fango misto a paglia, interamente circondata da un muro di cinta lungo chilometri e chilometri. Parcheggio in uno spiazzo e mi avvio per il dedalo di viuzze e cunicoli, che come arterie la attraversano.

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Ogni tanto faccio una foto per ritrovare la via del ritorno. E’ un posto incantato. le piccole viuzze coperte, ogni tanto finiscono in delle piazze sormontate da cupole, da cui partono altri tre o quattro cunicoli-bazar. Facilissimo perdersi.

La temperatura qui sotto si mantiene molto accettabile, merito delle geniali “torri de vento” che permettono un efficiente scambio termico, mentre fuori il sole picchia forte.

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Prendo delle direzioni a casaccio e scatto foto, dicendomi: “massì, tanto mi ricordo la via per tornare alla macchina”, finché non sbuco in una bella piazza con un raccolto giardino ed una moschea dalla forma particolare. Ad un lato della piazzetta una scritta indica un hotel ristorante caratteristico.

Mi faccio aiutare da delle persone per scendere una rampa di scale che accedono ad un bel giardino interno con una fontana rettangolare al centro. Vari tipi di piante rendono il posto fresco piacevole e informale.

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Ci sono anche vari turisti europei. Il gestore mi da la password per internet, provo ad accedere al blog, ma come al solito niente da fare. Vicino a me c’è una giovane coppia iraniana. Chiedo loro se conoscono un qualche sistema per aggirare i filtri governativi. La ragazza mi dice, con uno sguardo dalla luce ribelle e rivoluzionaria: “certo, dovrei installare sul tuo pc un programma che elude i filtri”. Le do il mio pc e la ragazza-hacker si mette a trafficare, intanto che ordino qualcosa da mangiare. Dopo una mezz’ora mi dice di provare, e miracolo funziona!

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Riesco a visualizzare il blog ma non a modificarlo, la connessione già lenta è appesantita dal programma-hacker. Ringrazio la ragazza rivoluzionaria che è anche lei anti Amadinejad, la quale mi confida che secondo lei soltanto le persone anziane dei villaggi di campagna lo votano.

Entrano altri turisti che li sento chiacchierare in inglese con l’albergatore. Non so perché ma mi sembrano italiani, e infatti lo sono! Stanno girando per l’Iran per la prima volta usando i mezzi locali che giudicano molto efficienti ed economici. Sono rimasti positivamente sorpresi dall’Iran.

“E dire che tutti i nostri amici ci dicevano: andate in Iran? ma siete matti? Invece stiamo benissimo la gente è cordiale e gentilissima, di grande civiltà”, mi dice uno di loro.

“Ma hai notato che alle fermate dei bus ci sono le prese di corrente per ricaricare i cellulari? E poi le fontanelle pubbliche che danno acqua refrigerata? Da quello che si dice dell’Iran in occidente non ce lo aspettavamo di certo così!”

Rimango un po’ di tempo con loro, poi loro stessi mi aiutano ad uscire.

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E’ pomeriggio inoltrato e mi metto in cammino sui miei passi per tornare alla macchina.

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All’inizio il percorso mi pare facile, ma quando arrivo a quegli incroci semi sotterranei, mi vengono dei dubbi su quale direzione prendere. Le foto che ho scattato mi aiutano poco. I cunicoli sembrano tutti uguali! Faccio vedere le foto a delle persone, e dopo un consulto mi indicano uno dei quattro cunicoli.

“Dovrebbe essere per di là”. Invece mi sperdo sempre più nel dedalo di viuzze. A forza di tentativi riesco ad uscire dalle mura che cingono la città vecchia, però non dallo stesso lato da cui sono entrato.

Senza altra scelta mi incammino attorno alle mura sperando prima o poi di arrivare all’auto. Cammino per due o tre chilometri ed ormai buio, finalmente la vedo apparire come in un miraggio!

Ritorno in hotel stanco morto e mi butto a letto. Cado in un sonno profondo e senza sogni.

18-05 Sabato:

Persepoli

Visito l’antica capitale dell’impero dei Parsi insieme ad un gruppo di turisti indiani.

Chiedo loro informazioni sull’India che spero di raggiungere a luglio.

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21-05 Martedì:

Giungo in serata a Kerman, e mi confondo nel caos del traffico del centro che qui sembra già a livelli pakistani. Mi fermo nei pressi del bazar per mangiare qualcosa. Le vie del vecchio, quasi medievale, mercato si infilano in cunicoli sormontati da cupole di argilla, simili a quelli di Yazd dotati di “torri del vento”, per l’aerazione. Ogni tanto i cunicoli si intersecano in piazze aperte, per poi ripartire in tre o quattro cunicoli diversi. Per chi non è di qui è facilissimo perdersi tra la folla. Rimango affascinato dal settore dove si vendono frutta e verdura, il luogo l’ho chiamato “il bazar delle voci”.

I venditori richiamano gli avventori a gran voce, facendo a gara tra loro a chi urla più forte, ripetendo frasi cantilenanti. Appese alle pareti delle loro botteghe, tengono delle gabbie con dentro degli uccellini che cinguettano sovrapponendosi alle possenti voci dei mercanti.

Trovo una risorantino con un girarrosto fuori. Indico un pollo, facendo cenno di tagliarlo a metà. Non ho mangiato nulla tutto il giorno, e quel mezzo pollo arrostito ed una ruota di pane, mi sembrano squisiti. Tutt’intorno il carosello di auto, motorini e bus strombazzanti, mi paiono sparire.  Notte a 60 km da Bam, la “città fortezza”.

22-05 Mercoledì Bam:

La cittadella fortificata di Arg e Bam era un luogo magico visitato da molti turisti, costruita interamente da mattoni di argilla intonacati da una miscela fango e paglia. E’ vicino alla cittadina di Bam, in mezzo ad un oasi ombrosa di palme, da centinaia di anni ed è sopravvissuta a varie generazioni e guerre, ma non alla forza distruttrice di un immane terremoto che si scatenò qui alla fine del 2003.

Il cataclisma distrusse la cittadella che era sormontata da un grande castello dalle mura merlate, come fosse un castello di sabbia fatto da un bambino in riva al mare spazzato via da un improvvisa onda. Quasi nulla è rimasto intatto, solo mozziconi di argilla sparsi qua e la, ormai sciolti dalla pioggia che, anche se qui cosa rara, in 10 anni è caduta.

Tutta la zona attorno alla cittadina di Bam subì gravissimi danni e decine di migliaia furono i morti rimasti intrappolati sotto le macerie delle povere case, in questa zona spesso costruite, come da sempre, con mattoni di argilla.

Le abitazioni si sgretolarono sotto la forza della natura. Il forte terremoto raggiunse gli 8 gradi Richter e durò un infinità. Furono 20 secondi di tragedia che sconquassò una vasta area attorno a Bam.

Ora la cittadina di Bam la trovo in buona parte ricostruita, con un bel nuovo bazar in centro dai porticati ombrosi. La vita mi è parsa abbastanza tranquilla con il solito via vai di auto e persone indaffarate nella vita di tutti i giorni.

Oltrepasso il centro e arrivo a Arg e Bam, o più esattamente, a quello che ne rimane. La luce radente e rossastra del sole al tramonto amplifica il senso di angoscia che afferra al cuore il visitatore che giunge oggi qui. Tutta la parte posteriore della grande cittadella fortificata, che ricordava un po’ San Marino, è distrutta. Cumuli di macerie color terra che si confondono con il panorama circostante. Ogni tanto si riesce ad intravedere un pezzo di muro merlato rimasto ancora in piedi, una parte di una torre.

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La parte anteriore, dove c’è l’ingresso principale attraverso le mura, è in fase di ricostruzione, ed è ora in parte visitabile. Arg e Bam è un sito archeologico importante riconosciuto dall’Unesco, e con i fondi stanziati si sta faticosamente cercando di rimettere in piedi la cittadella.

Squadre di operai la stanno riedificando usando la stessa tecnica del tempo, usando mattoni di argilla preparati con il terreno attorno a Arg e Bam, miscelato con acqua e paglia e lasciatati poi essiccare al sole. Per entrare c’è da pagare anche un biglietto d’ingresso.

Mi avvio per il viale in salita che si inoltra tra la via principale d’accesso alla cittadella. Il vialetto lastricato di pietra ed i muri appena rifatti, forse fin troppo precisi e squadrati, anche se sempre in fango come dovevano essere stati prima del terremoto, rendono il luogo sintetico e senz’anima.

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Passeggiando per la stradina, con ogni tanto delle nuovissime panchine di legno, si può arrivare fin sotto il castello che era al centro della cittadella. Il resto è ancora tutto da ricostruire di sana pianta. Chissà quanti anni ci vorranno per terminare l’opera, ma di certo non sarà mai come prima.

Ho l’impressione che diverrà una specie di Disneyland iraniana per turisti affrettati. Per il viottolo incontro un anziano professore che mi parla della magnificenza di Arg e Bam prima del cataclisma. Mi dice di aver scritto quattro libri sulla storia di questa fantastica città-fortezza.

Mentre sto per andar via faccio la conoscenza con una turista solitaria turca. La signora, sui sessanta dal volto fiero con una macchina fotografica professionale al collo ed un bel sorriso, mi da l’impressione della viaggiatrice inglese di inizio ‘900. “E’ una giornalista?” le chiedo, un po’ incuriosito. “No, no solo appassionata di fotografia. Ho scattato delle foto a quello che rimane, ricordando a quando venni qui parecchi anni fa. Allora lo spettacolo era mozzafiato.”

Mi dice che viene dall’Anatolia e di avere molto tempo a disposizione per viaggiare. Sta andando anche lei, in pullman, in Pakistan. Parliamo un po’ di quella magica e misteriosa nazione che entrambe abbiamo già visitato anni fa.

Lei mi lascia il suo indirizzo e mail. “Se passi per l’Anatolia vienimi a trovare.” “Certo, ma può darsi che ci incontreremo ancora per le polverose vie del Pakistan!”, le dico mentre mi avvio alla macchina.

Torno nel centro di Bam. Scendo dall’auto alla ricerca di un ristorante e di un posto dove cambiare 20 Euro per affrontare le (poche) spese per raggiungere la frontiera con il Pakistan, ancora distante da qui. Provo in vari negozi ma nessuno di questi è disposto al cambio di valuta, finché non giungo ad un grande negozio di vestiario.  Qui incontro Reza ed i suoi amici che gestiscono il negozio. Reza è un fan dell’Italia e ama la squadra calcistica della Lazio.

Io mi fingo laziale per entrare nelle sue simpatie e subito mi cambia i soldi salvandomi dai problemi, visto che ho quasi finito il carburante e non ho più un Rial. E’ simpaticissimo e vuole a tutti i costi accompagnarmi in ristorante dicendo: “non ci sono storie, sei mio ospite. Anzi se vuoi puoi stare a dormire a casa della mia famiglia.”

Il ristorante sta per chiudere, ma Reza riesce a convincere il ristoratore a prepararci due gustosi spiedini di pollo e insalata. Dopo poco veniamo raggiunti dai colleghi di Reza, arrivati a bordo della loro Renault Tondar (la versione iraniana della Dacia Logan).

Vogliono sapere dell’Italia e del mio viaggio, e sono curiosi di vedere la mia macchina. Immagino che per loro sia inconcepibile che una persona in carrozzella guidi un auto. Mi accompagnano alla mia macchina e dico a Reza: “guarda abbiamo lo stesso cruscotto, gli interni sono praticamente uguali alla vostra Tondar.”

Loro un po’ increduli osservano le maniglie delle portiere poi la serratura, infine la strumentazione ed il cruscotto. “E’ vero sembra la mia Tondar!” Esclama felice.

Reza mi fa dono di un sacchetto con succhi di frutta, biscotti e vari cake. “Ti saranno utili mentre viaggi verso il Pakistan!” Ci salutiamo a colpi di clackson dalla stessa tonalità.

“Everiting same, everiting same” Urla l’autista della Renault Tondar, mentre ci allontaniamo in opposte direzioni.

Notte in un vero deserto che sembra africano a 150 km da Zâhedân, città vicina al confine Iran-Pakistan di Taftan. Anche se notte fonda l’aria è torrida.

PAKISTAN:

04-06 Martedì:

All’alba vengo svegliato dalla polizia, che vedendomi qui vuole “proteggermi”. Mi fanno prendere quasi un accidente con le loro maledette lampadine che mi puntano in faccia.

Lo immaginavo che sarebbero arrivati ma non così presto. Qui tra i monti della Karakoram Higway è difficile trovare un pianoro dove stare per la notte che sia fuori della vista della polizia, e ieri era già tardi quando ho trovato questo spiazzo vicino alla strada ed a una fattoria. Dico ai polis che devo dormire ancora e voglio essere lasciato in pace, ma loro si piazzano vicino alla macchina, mentre mi dicono: “We are hier for your safety, you are our guest”.

Al primo barlume di luce mi risvegliano ancora una volta picchiettando sul vetro. Sono la mia dannazione, non ne posso più di poliziotti di armi e di scorte! Mi dicono che hanno già chiamato il comando per organizzarmi la scorta, “It’s a very dangerous area!”, ma io riesco a scappare lasciandoli soli tra le capre!

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I posti sono incantevoli, la gente che incontro nei vari villaggi che attraverso meravigliosamente umana ed amichevole. Ovunque la gente mi accoglie con calorose strette di mano, ed i vecchi dalle lunghe barbe bianche si intrattengono con me in amabili conversazioni. Sono i militari armati ed i poliziotti la nota stonata in questi bellissimi luoghi.

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In un villaggio confuso dove mi fermo a comprare qualcosa, appare tra la folla un polis che mi dice che dovrei essere scortato, ma io senza pensarci due volte, fuggo via. Non accetto più di venir “imprigionato” dalle loro scorte armate, “for your safety”.

Passo tutto il giorno a schivare i posti di blocco e a sfuggire ai poliziotti. Mi sento il ricercato numero uno! Nel tardo pomeriggio arrivo nei pressi della stradina tutti tornanti per raggiungere la “furbation turistica” di Fairy Medows, un esclusivo “resort” costruito in un incantevole pianoro sotto al maestoso monte Nanga Parbat alto più di 8.000 m.

Pensavo di salire per quei tornanti ed accamparmi lassù. Pregustavo questo momento già prima della partenza da Roma, ma l’accesso alla stradina di montagna è controllato da un altro hotel di lusso dello stesso gruppo, lo Shangri La, costruito con i tetti rossi dalla forma appuntita e rivolta all’insù.

Parcheggiati di fronte stazionano varie Jeep vecchissime che sembrano provenire dalla seconda guerra mondiale, con delle ruote liscissime che paiono della stessa epoca. I sedili sono sfondati dai quali fuoriesce quel poco di imbottitura che è rimasta.

Poco dopo arriva una persona che si definisce “manager” di questo posto. Viene dall’America, e mi racconta la sua idea di viaggio: “questa sera puoi rilassarti qui nel nostro hotel Shangri La, e domani a bordo delle nostre Jeep raggiungere il magnifico Fairy Medows e pernottare lassù, poi ridiscendere e proseguire per Skardu con la tua auto. Poco prima di Skardu abbiamo un altro bellissimo “resort” in riva ad un lago che si chiama Shangri La”.

Che fantasia, penso tra me, mentre cerco di sbirciare la strada oltre la sbarra. Dico all’americano che la mia idea di viaggio è leggermente diversa dalla sua. Pensavo di salire da solo con la Dacia fin lassù e dormire in macchina con lo spettacolo del Nanga Parbat di fronte. Non credevo che la strada fosse “privata”.

L’americano continua dicendo: “impossibile, la strada è difficile e non consentiamo a nessun altro mezzo all’infuori dei nostri per raggiungere il Fairy Medows”. Provo ad insistere, ma non c’è verso. Non oso neanche chiedere quanto mi potrebbe costare il progetto made in Usa.

Il “manager” mi regala un luccicante depliant dello Shangri La di Skardu. Mi faccio riempire la tanica dell’acqua e mi avvio alla ricerca di un posto per il mio “resort”.

Lo trovo appena la karakorum Higway sale su un pianoro, fuori dalla vista dei polis (almeno lo spero). In fondo vedo il maestoso fiume Indo, l’hotel dell’americano e la montagna con la traccia tutta a zig zag per il Fairy Medows.

05-06 Mercoledì:

Mi sveglio con la strada per me “off limits” di fronte.

Proseguo a guidare sulla Karakorum Higway, tra panorami montani e il grande fiume Indo, che scorre con forza tra le pareti di roccia verticale.

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In cima ad un piccolo valico un cartello in inglese indica di guardare a destra dove la vista si apre sul Nanga Parbat.

Purtroppo sta per arrivare un temporale che sembra generato dall’altissima montagna, la quale si riesce a malapena a percepire tra le nere nubi che la avvolgono. Un altro cartello scritto a mano dice: “Resturant-hotel Nanga Parbat”.

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Il gestore, uno di otto fratelli di una numerosa famiglia, mi accoglie calorosamente. Il padre è preso dalla televisione che sta trasmettendo le consultazioni elettorali per l’elezione del nuovo primo ministro.

Mi accomodo all’ombra di un albero e chiedo cosa si può mangiare. Ali mi dice che deve cucinare sul momento. Ci accordiamo per un riso birjani ed un pane “ciapati”. “In un’ora dovrebbe essere pronto”, mi comunica Ali, mentre comincia a piovere, finalmente un po’ di frescura!

Arriva un altro fratello. Gli chiedo come mai sul cartello c’è scritto “Nanga Parbat,  killer mountain”. Lui risponde: “il Nanga è una montagna molto difficile e il tempo lassù cambia continuamente. Tanti alpinisti ci hanno perso la vita. Io conoscevo tanti Sherpa, che per guadagnar qualcosa, accompagnavano gli scalatori, portando le loro attrezzature ad altissime quote. Gli scalatori avevano le attrezzature all’avanguardia per affrontare i rigori dell’alta quota, invece i miei amici Sherpa, oltre al pesantissimo carico che trasportavano, erano vestiti sommariamente. Tantissimi di loro non sono più tornati”.

Finisce di piovere, ed il “risotto”, ancora non si vede. Si dice che la buona cucina ha bisogno di tempo, ma qui si esagera, intanto che  il sole sta calando. Dopo che anche il padre mi ha salutato, arriva vittorioso Ali, con un vassoio pieno di riso e quattro ciapati bollenti. “Ma questo piatto è almeno per tre persone!”, dico ad Ali, e lui: “visto che non hai mangiato nulla finora ho abbondato un po’!”

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Tanto tempo d’attesa e poi non è neanche un granché. Il riso è colloso e non sa quasi di niente, solo quel solito gusto di una qualche spezia che qui mettono dappertutto. Anche un dentifricio che ho comprato giorni fa a Islamabad ha quell’aroma. Questo riso birjani mi pare il mio dentifricio, comunque ho fame e ne mangio una metà. Il pane appena fatto invece è ottimo.

Con le prime luci della sera lascio questo ristorante che non credo metterò tra i miei preferiti. Continuo ancora un po’ sulla KKH, ma la lascio per andare verso Skardu, cittadina divenuta famosa per essere il centro abitato da cui partono le spedizioni verso il K2.

La strada, stretta e sconnessa, attraversa il largo fiume Indo su un pauroso e traballante ponte sospeso di legno, di quelli che penso esistano solo in Pakistan.

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Lo passo abbastanza velocemente, le tavole di legno si muovono paurosamente e scricchiolano sotto le ruote, ma per fortuna arrivo dall’altra parte. Qui un poliziotto mi ferma, e con l’aria severa mi dice: “slow on the bridge, slow! You was too fast!”. Pensavo volesse scortarmi, invece è solo un consiglio per la prossima volta. Forse hanno paura che si smonti. Io l’ho passato speditamente perché non vedevo l’ora di approdare dall’altra parte.

La notte la passo a strapiombo sul fiume Indo che mi culla con la sua possente voce durante la notte.

06-06 Giovedì:

Le rocce delle montagne intorno a me cambiano di colore con il sole. Dapprima scure, poi man mano si fanno color ocra con varie striature biancastre. Le loro cime risplendono ai primi raggi solari di un bianco accecante nell’aria limpidissima, mentre il fiume continua la sua eterna corsa verso un lontano mare.

Proseguo sulla stretta strada per Skardu, ancora 150 km da qui. La via è sconnessa, e la velocità media molto ridotta. L’asfalto approssimativo manca del tutto in parecchi tratti dove la montagna ha franato. La carreggiata è ridotta, a strapiombo sul fiume e in parecchi tratti scavata nella roccia cedevole. Quando incrocio un altro veicolo devo spostarmi sulle pietre a sinistra e quasi fermarmi.

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Più pericoloso quando mi trovo di fronte uno di quei camion pitturati e agghindati da catenelle e girandole, proprio dietro una stretta curva scavata nel fianco della montagna. Io suono sempre prima di affrontare queste curve cieche, invece questi bestioni arrivano in silenzio. Fortuna che vanno pianissimo.

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Proprio non capisco i camionisti pakistani, strombazzano sempre con i loro potentissimi clackson multitonali quando non ce né bisogno, e qui se ne stanno zitti, solo lo scampanellio delle catenelle che ornano completamente il camion segnala debolmente il loro arrivo.

In compenso il panorama è da fiaba. Ogni tanto la stretta valle rocciosa si allarga e appaiono dei piccoli paradisi fatti di terrazzamenti verdissimi e ombrosi di pioppi. Tra i campicelli serpeggiano argentei ruscelli, cascate e villaggi di pietra che sembrano un tutt’uno con l’ambiente circostante. Anche la gente sembra perfettamente integrata con la natura.

Le case son di pietra, come di pietra sono i terrazzamenti che consentono le coltivazioni di sussistenza, grano, orzo e qualche albero da frutta. Nei cortili hanno galline, pecore e mucche. Usano i rami secchi degli alberi per cucinare e scaldarsi, e l’acqua della cascata per dissetarsi. Rifiuti e sporcizia intorno alle case non se ne vede, poiché non se ne produce. Tutto quello che serve si usa, senza spreco alcuno. Qui la popolazione sembra condurre una vita completamente autonoma.

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Alcuni di questi piccoli villaggi si fa fatica a vederli, tanto sono integrati con la natura. Parecchie case sono costruite proprio sopra a dei grandi massi a picco sull’Indo, che scorre in rapide tumultuose 50 o più metri sotto di loro.

Io avrei una paura pazza a stare lì solo per 5 minuti, e invece le genti del Baltisan ci vivono tranquillamente. Per raggiunger questi paesini-roccia, che sono dalla parte opposta della valle, bisogna percorrere dei paurosi ponti sospesi costruiti di legno e tenuti da funi d’acciaio lunghi un centinaio di metri.

Su uno di questi, vedendo che prima di me ci passa un piccolo trattore con rimorchio, prendo coraggio e provo l’ebrezza del pericolo. Il ponte non è fissato agli argini verticali del fiume e rimane distanziato di qualche centimetro con anche uno scalino di una decina di centimetri, che si appiana appena ci appoggio le ruote.

Quando monto sul ponte sospeso le tavole si flettono e le funi cigolano. Mentre lo attraverso molto lentamente il ponte si deforma e sembra prendere la forma della macchina mano a mano che mi sposto. Mi sembra di essere su un imbarcazione in mezzo al mare per quanto ondeggia. Poi è strettissimo. La Dacia ci passa al pelo. Mi sforzo a guardare avanti a me, evitando di gettare lo sguardo tra le potentissime rapide del fiume forse 100 metri sotto di me. Ma il ponte flessibile tiene e approdo di là, sulla terra ferma! La stradina sterrata prosegue e si insinua tra il villaggio- roccia costruito a gradoni sul fianco fertile della montagna.

Non avevo nessuna necessità di venire qui, era solo per vedere l’effetto che fa passare su ponti simili i quali collegano i villaggi con la strada principale per Skardu

Lungo la via Incontro di tanto in tanto delle cascate che partono dai ghiacciai e si tuffano a fianco della strada. Parecchie volte cadono su di essa, e bisogna guadare dei torrenti. A sera, quando ormai mancano poche decine di km per Skardu, le cascate si ingrossano, dopo che il sole ha sciolto per tutto il giorno il ghiaccio, ed alcuni guadi diventano più impegnativi per la forte corrente e le tante pietre portate dalla forza dell’acqua.

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La notte la passo a circa 10 km da Skardu vicino al fiume Indo.

07-06 Venerdì:

Risveglio da favola tra i monti del Karakorum a 2.000 m. di quota.

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Qui la valle si allarga, il fiume Indo si placa, e scorre quieto tra sponde di sabbia grigiastra. Le alte montagne che mi circondano sono coperte di ghiaccio, dalle quali sgorgano cascate spumeggianti che si tuffano nell’Indo.

Finalmente nel primo pomeriggio giungo a Skardu. La cittadina sprofonda in una coltre di polvere e smog generato dai veicoli che qui si intrecciano in ingorghi che sembrano senza senso. Non ero più abituato al traffico, e Skardu me la figuravo diversa, come una specie di paradiso di montagna. Invece è un centro abitato caotico e sporco, come tanti altri incontrati in Pakistan.

I vari negozi che vendono attrezzature alpinistiche, la differenziano da altri posti. Ma mi basta alzare lo sguardo verso le splendide montagne che la circondano, per affrancare lo spirito.

Poco fuori città trovo il “K2 motel”.

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L’albergo ospita nel suo bel giardino curato un museo a forma di piramide, costruito dal Cnr italiano nel 2004, come ricorrenza del cinquantenario dalla prima scalata del K2 da parte di una spedizione italiana.

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Il posto è pulito ed ubicato in un luogo tranquillo vicino al fiume Indo, con un giardino all’inglese a strapiombo sul fiume.

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Dentro non è male, anche se un po’ vecchio, ma con l’atmosfera dello chalet di montagna. Appese alle pareti varie foto di scalatori con tanto di dedica. Le camere hanno tutte la porta del bagno stretta, così uso il “K2” solo come ristorante, risparmiando le 3.500 Rupie (35 Euro) della stanza.

Mentre mangio un buon riso con pollo, osservo le foto scolorite anni ’80 appese alle pareti ritraenti la vetta del K2 ed il ghiacciaio Concordia. Mi torna in mente il grande scalatore-cineoperatore Kurt Diemberger, che una ventina di anni fa era di casa in questa zona. Kurt e la sua compagna Julie Tullis formavano negli anni ’80 il team di cineoperatori più alto del mondo, e hanno accompagnato con le loro pesanti attrezzature cinematografiche diverse spedizioni Himalayane, tra cui il K2, realizzando spettacolari documentari di alta quota. Al K2 Kurt è rimasto particolarmente attaccato da un combattuto rapporto di odio ed amore. Amore per la montagna perfetta, e rancore per essere stata la causa della perdita di Julie insieme ad altri amici scalatori, i quali perirono durante la discesa dalla difficile vetta del K2 nel 1986. Soltanto Kurt ed un altro alpinista riuscirono a tornare al campo base in pessime condizioni fisiche.

Nel 1987 Kurt ha dedicato a quei drammatici momenti un commovente film-documentario dal titolo “K2 sogno e destino”. Io l’ho conosciuto durante una sua emozionante conferenza sulla montagna nel 2005, dove presentava un suo libro sul K2. Io lo acquistai e lui ci scrisse una dedica. Mentre organizzavo il viaggio che sto compiendo, mi tornò in mente e poco prima di partire sono riuscito a contattarlo e a chiedergli dei consigli sul viaggio in Pakistan. Lui mi rispose dicendomi poche ma pesanti parole: “non me la sento di consigliarti un viaggio che potrebbe essere l’ultimo. Io manco dal Pakistan da tanti anni e so che quell’area è divenuta molto pericolosa, ma se dovessi raggiungere Skardu ti prego di mandarmi una cartolina da laggiù!”.

Alla reception dell’albergo acquisto una cartolina di Skardu, e scrivo a Diemberger: “Caro Kurt, come vedi alla fine ce l’ho fatta a raggiungere Skardu. Qui l’albergatore e alcuni portatori si ricordano di te. I posti sono sempre meravigliosi come li descrivevi tu, e la gente amichevole. Penso che dovresti tornare qui.”

La notte la passo fuori città vicino al fiume in uno spettacolare panorama.

08-06 Sabato:

Visto che non ho nulla da fare a Skardu, torno nel motel K2 per mangiare qualcosa e visitare il museo dedicato al Karakorum.

Ormai qui si ricordano di me, e le persone dell’hotel mi paiono già vecchi amici. Pranzo nel verdissimo giardino dai viali fioriti con il fiume sotto e le montagne come sfondo. Il posto sembra una cartolina.

Qui incontro tre italiani del Cnr, appena giunti da Islamabad. Sono pieni di attrezzature, il loro tavolo è ingombro di computer e telefoni satellitari. Mi raccontano brevemente del loro lavoro che consiste nel controllare le apparecchiature installate tra i ghiacci del Karakorum ed effettuare nuove installazioni nei prossimi giorni sul plato Deosai, un altopiano non distante da Skardu.

Anche il museo è opera del Cnr, costruito con la forma della piramide tecnologica montata nei pressi del K2. Una targa all’esterno ricorda la data di costruzione risalente al 2004, ricorrenza del cinquantenario dalla prima ascensione al K2 da parte di una spedizione di italiana. L’interno è tappezzato da varie foto degli anni ’50 che documentano la difficile scalata alla vetta più alta del Pakistan.

Un capo spedizione del “Rescue team” mi fa da guida. Ali mi racconta con trasporto le foto che raffigurano ghiacciai, vette ardite, portatori ed alpinisti. Ma Ali non può concedermi troppo tempo, deve tornare fuori per continuare l’organizzazione dei carichi con i porter che formano il “Rescue Team” di alta quota. Il gentilissimo Ali mi invita ad assistere. Esco dal museo con lui e mi trovo nel mondo dell’organizzazione di una spedizione himalayana.

I porter del Baltisan sono raggruppati in cerchio all’ombra di un grande albero, sull’erba un cumulo di attrezzature da riporre in grandi contenitori blu. Piccozze di ogni genere, scarponi, ganci, corde, e una grande quantità di cibo e vari fusti di olio per friggere.

Il “Rescue Team” è un unità di soccorso alpino che rimarrà sul ghiacciaio Concordia, a oltre 5.000 m di quota, per tutta la stagione delle scalate che sta per iniziare. Il loro compito è quello di assistere gli alpinisti in difficoltà, che ogni anno giungono qui per varie scalate.

Per raggiungere il ghiacciaio Concordia il “Rescue team” dovrà prima affrontare un viaggio di alcune ore sui fuoristrada fino al villaggio di Askole, e da lì proseguire a piedi per circa 20 giorni tra le vette del Karakorum. Per tre mesi la loro casa sarà il ghiacciaio con lo spettacolare panorama della vetta del K2 e altri 8.000.

Mentre parlano animatamente tra loro e cominciano a caricare il carico sui fuoristrada, mi tornano in mente i frenetici giorni della preparazione del carico per la mia macchina, ormai un mese e mezzo fa. Come mi sembrano lontani quei giorni, paiono appartenere ad un altra dimensione.

Nel tardo pomeriggio lascio Skardu per tentare la salita al Plato Deosai, a quota 4.000 m., che i porter hanno definito meraviglioso, anche se mi hanno detto che sulla strada lassù c’è ancora l’ultima neve che si sta sciogliendo che probabilmente blocca il passaggio.

La stradina comincia subito a salire in ripidi tornanti costeggiando un burrascoso fiume che viene giù con forza dal ghiacciaio. La stretta strada sarebbe asfaltata, ma le varie frane che continuamente flagellano questa zona, hanno in tanti tratti distrutto.

E’ un continuo zigzagare tra i massi rimasti sulla strada. In alcuni punti ci passo al limite. La via scollina un pianoro dove una diga per generare elettricità forma un bel lago. E’ ormai sera e mi accampo vicino al fiume che alimenta il lago. La notte il frusciare del fiume mi culla.

09-06 Domenica:

Sveglia in riva al fiume con le montagne attorno. Vedo in fondo alla valle alcune case di pastori. Osservo tre donne dai sari colorati che trasportano con fatica sulle spalle delle grandi ceste di vimini ricolme di rami secchi e cespugli raccolti attorno al fiume, necessari per cucinare e scaldarsi. Ogni tanto fanno una sosta poggiando il pesante fardello contro una grande pietra. Dev’essere dura la vita in questi piccoli villaggi di montagna.

Riprendo a salire tra i sassi. Ad un certo punto un fiume, ramificato in più torrenti blocca il passo. Una macchina ferma, gli occupanti osservano l’acqua melmosa ma desistono dal provare a passare. Mi fermo anch’io a studiare la situazione. L’acqua non sembra molto profonda, ma la forte corrente ha trasportato con se tanti sassi di varie dimensioni. Mi pare fattibile e decido di tentare, infatti passo senza difficoltà, solo un piccolo urto col sottocoppa su una pietra nascosta dall’acqua.

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Guardo il torrente di fango e pietre che ho appena passato, pensando che nel corso della giornata potrebbe aumentare di intensità con il continuare dello scioglimento dei ghiacci. Spero di riuscire a passare per il plato Deosai e raggiungere Astore e da lì la KKH senza dover tornare indietro a Skardu. Ma purtroppo mi sbaglio.

Quando sono quasi sul valico che accede al plato, dei grandi massi bloccano la già stretta strada. Forse al millimetro ci potrei passare, ma un pizzico di buon senso mi fa desistere.

“Non è mica così importante attraversare il Deosai, tanto forse ci potrò riprovare a settembre, quando sulla via del ritorno dal Nepal dovrò ripassare per il Pakistan. in quel periodo la strada sarà più transitata”, mi dico mentre faccio manovra al limite dello strapiombo per tornare indietro. Ritorno sui miei passi, riattraverso il fiume melmoso che per fortuna non è aumentato, e ritorno nel traffico polveroso di Skardu.

Torno dagli amici del K2 motel, felici nel rivedermi. Nel frattempo sono arrivati parecchi turisti-scalatori da varie parti d’Europa e Corea. Li vedo indaffarati tra computer e mappe varie a confabulare tra loro circa le tecniche da usare per le scalate.

Il “Rescue team” nel frattempo è partito verso il ghiacciaio Concordia. La stagione alpinistica inizia. Usando la connessione wifi del motel K2, riesco a chiamare mia sorella a Roma con Skipe, e a rassicurarla. “Tutto a posto, sto per tornare verso la Karakorum Highway, poi proseguirò per la valle di Hunza”. Riesco appena a dire queste parole poi, come sempre accade in Pakistan ad orari prestabiliti, la corrente elettrica si interrompe. Anche se poco dopo parte il potente generatore diesel dell’hotel, internet rimane fermo.

La notte la passo sulla strada per tornare verso la KKH.

10-06 Lunedì:

La stretta strada che da Skardu porta alla KKH ad un certo punto è interrotta da un fiume di fango e massi venuti giù dalla montagna. Anche se non piove da giorni, il caldo continua lo scioglimento della neve ancora presente sulle cime e porta a valle imprevedibili corsi d’acqua.

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Quando passavo di qui quattro giorni fa la strada era perfettamente asciutta, ora invece è impossibile proseguire. Si è già formata una discreta fila di auto e camion. La gente che si è radunata intorno ai flutti, si sta già mettendo all’opera per ripristinare il passaggio, spostando a mano le pietre facendole rotolare nella valle a lato della strada. Ne approfitto per prepararmi il pranzo con i fornelli a spirito che ho con me. Mi cucino un bel piatto di pasta con un sugo pronto ai funghi niente male.

Dopo un po’ arriva da me un uomo che è sceso da un fuoristrada fermo poco avanti. In italiano mi dice: “parla inglese?”. Si presenta, è un operatore inglese di una qualche organizzazione europea con sede a Islamabad. E’ incuriosito dalla mia presenza qui, e vuole sapere del viaggio che sto facendo. Mi informa che tra un paio d’ore la strada verrà riaperta. Infatti, a forza di spostare pietre e sassi le eroiche persone del Baltisan riescono a riempire il vuoto creato dall’erosione del torrente e a riaprire la strada.

La notte la passo vicino alla KKH non distante da Gilgit.

11-06 Martedì:

Attraverso Gilgit che è in fermento per una festa religiosa. La via centrale sembra un fiume in piena di fedeli giunti qui dalle valli circostanti. Sono genti del Baltisan, Hunza e chissà di quali altre etnie. Qui in ogni valle cambia il linguaggio e le usanze, alcune di queste rimaste immutate da secoli tra le inaccessibili stette valli laterali. Solo la religione e la lingua ufficiale del Pakistan, l’urdu, li accomuna.

Non mi sento tranquillo, accerchiato come  sono da questa folla variopinta che mi costringe ad avanzare a passo d’uomo. Ho paura che un qualche kamikaze di un etnia dissidente si faccia esplodere proprio qui in mezzo al caos generale. Per fortuna non accade nulla, chiedo ad alcuni fedeli il motivo del loro raggruppamento, ma non capisco bene. Comprendo solo che i festeggiamenti andranno avanti fino a domani, e che si tratta di un importante evento per i Sunniti.

Dopo Gilgit la KKH diventa una perfetta strada dall’asfalto nuovissimo, anche se in parecchi tratti ancora in costruzione. Delle ditte cinesi stanno infatti rimettendo a nuovo la scassata Karakorum Highway, che collega il Pakistan alla Cina attraverso il passo Kunjerab a circa 150 km a nord di qui. L’espansionismo cinese ha bisogno di nuovi mercati, e dunque raggiungere il Pakistan via terra con le merci cinesi a bassa costo rappresenta per la Cina un ulteriore avanzamento verso sud.

La vecchia e malridotta KKH era un rallentamento per il “Sol levante”, e dunque i governi cinesi e pakistani si sono accordati per rimodernarla agli standard cinesi usando gli avanzati macchinari da costruzione orientali, e le maestranze a basso costo locali. Osservo gli operai pakistani nel duro lavoro di allargare la carreggiata addossata alla montagna intenti nello spaccare i massi con martelli pneumatici o a mano usando grandi mazze di ferro. Sembrano dei carcerati ai lavori forzati. I cinesi invece dirigono i lavori, o al più si dedicano a stendere l’asfalto guidando delle nuovissime finitrici. Il lavoro più duro e pesante spetta alle persone di qui, che immagino ricevano un magro compenso in cambio.   I nuovi ponti dalle arcate di pietra “made in Cina”, che mano a mano vanno sostituendosi a quelli sospesi, recano sulle protezioni laterali delle sculture a forma di testa di leone, simbolo della Cina, come a voler ricordare che qui la Cina è di casa.

Poco prima della valle di Hunza la KKH passa proprio sotto il monte Rakaposhi alto 7.600 m. Sotto ad esso un tumultuoso fiume, e sulla riva vari ristoranti e qualche hotel con vista sul ghiacciaio. Il posto è incredibilmente bello, e ne approfitto di una sosta per uno spuntino.

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Prendo posto ad un tavolino vicino al fiume, sopra di me la mole del Rakaposhi che si staglia contro il cielo azzurro. L’enorme ghiacciaio sembra come se dovesse staccarsi da un momento all’altro e venir giù. Ordino un pollo alla griglia.

Visto che ci vorrà una mezz’ora per cucinarlo, inganno l’attesa chiacchierando con un signore che sta al tavolo vicino. E’ un insegnante di una scuola statale, ed infatti è informatissimo sul mondo della scuola del Pakistan. Gli chiedo se è vero quanto vari studenti mi hanno detto circa il fatto che l’insegnamento nelle scuole statali sia lacunoso, costringendo chi ne ha la possibilità economica a rivolgersi a istituti privati, che viaggiando ho visto un po’ dovunque.

Rashid annuisce dicendo che l’insegnamento è uno dei grossi problemi del Pakistan. Le scuole sono ancora divise tra maschili e femminili, ed il grado di analfabetismo è ancora alto, specie tra le ragazze. In alcuni remoti villaggi la costruzione di nuove scuole femminili viene osteggiata dal consiglio degli anziani, ancora attaccati ad antiche tradizioni.

“Ma qui nella splendida valle di Hunza le cose vanno meglio, più del 70 % dei giovani va a scuola ed il grado di insegnamento nelle scuole statali di qui è molto buono rispetto alla norma del Pakistan. In questa valle ogni alunno parla fino a sette lingue locali diverse, e parecchi conoscono anche l’inglese”.   Finiamo per parlare della storia del Pakistan, della “Partition” alla fine dell’impero inglese, che portò nel 1947 alla costituzione dell’attuale Pakistan, che in urdu significa “la nazione dei puri”, e dell’India, con il conseguente massacro di un milione di persone mentre migravano dall’india al Pakistan e viceversa. Di qua i mussulmani, e di là gli indù, con a nord, in parte in Pakistan e in parte India, il Kashmir insanguinato da conflitti che sembrano senza soluzione.

Rashid ricorda anche l’impossibile vita nella parte orientale del Pakistan, l’attuale Bangladesh, che fino alla sua indipendenza avvenuta nel 1971, faceva parte integrante del Pakistan mussulmano, diviso da una parte di India a loro ostile. “Ora la situazione in Bangladesh se possibile è peggiorata da allora vista la piccola striscia di terra frequentemente soggetta a inondazioni che l’imponente numero di persone ha a disposizione. In tanti sono costretti ad emigrare poiché realmente non hanno più terreno su cui vivere.”.

Poi Rashid mi chiede dell’Italia e di Venezia, città che lo ha affascinato conoscendo la storia della città lagunare. Quando gli confesso che non l’ho mai realmente visitata, ma soltanto sfiorata ogni volta che da Roma viaggio verso oriente, lui sbotta a ridere. “Ma come, Venezia è una delle città più belle e famose al mondo, fiore all’occhiello della tua nazione, e tu che giri il mondo non la conosci. E’ assurdo.” .

Ci salutiamo, mentre la vetta del Rakaposhi si chiude alla vista dalle nubi. “Ciao amico, salutami Venezia!”, sono le ultime parole di Rashid, che sento già che mi mancherà.

Nel pomeriggio entro nella bellissima valle di Hunza, e provo a raggiungere il famoso forte Baltit, costruito su uno sperone di roccia, che da 900 anni domina la vallata.

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La parte del villaggio che circonda il forte, porta i segni di un ricco passato turistico. Le strette viuzze, tutte in salita, mi ricordano San Marino con tantissimi negozi e botteghe di artigianato locale. I negozi sono aperti, ma mancano i turisti, forse spaventati dalla pubblicità negativa che spesso accomuna il Pakistan al terrorismo. Invece è una nazione così bella ed interessante. Ogni tanto vedo dei turisti cinesi e qualche occidentale, ma niente rispetto ai tempi d’oro degli anni ’90, quando qui era difficile camminare per la calca dei turisti provenienti da tutto il mondo, come mi racconta un negoziante. Provo a salire fino al forte, ma la piccola via lastricata è troppo ripida per me, Riesco ad arrivare fino ad uno slargo dal quale riesco a scorgere il bianco forte Baltit con le sue caratteristiche balconate sorrette da lunghi pilastri di legno.

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Qui una voce mi chiama: “Sei italiano?”. Sono due signori italiani che vivono a Karaci da 12 anni e lavorano in Pakistan nel settore dell’insegnamento. Parliamo un po’ della loro vita in Pakistan, e di come la nazione sia cambiata rispetto a 10 anni fa. Ma non possono concedermi tanto tempo devono andare da qualche parte. Riescono solo a consigliarmi un hotel, il “Eagle Nest”, che definiscono molto panoramico.

E’ strano, con la gente di qui mi intrattengo in interminabili conversazioni che a volte faccio fatica a terminare, e invece quando incontro dei connazionali, o occidentali, gli scambi di opinioni sono sempre brevi e rarefatti. Sembra che abbiano tutti un gran da fare, come se il tempo a loro disposizione abbia un costo o una scadenza. Comunque sia seguo il consiglio degli italiani e salgo per un viottolo tutti tornanti che attraversa campicelli e risaie e culmina su un colle dalla vista mozzafiato. Da una parte la mole del Rakaposhi, di là un’altra irta parete di roccia coperta di ghiaccio, davanti la splendida valle di Hunza con il suo argenteo fiume, e sotto il forte Baltit. Quassù, in parte costruito su uno sperone di roccia, vedo l’hotel “Eagle Nest”, proprio un posto per le aquile!

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Appena scendo dalla macchina una voce mi chiama in uno stentato italiano, mi giro e mi trovo di fronte quel signore inglese che avevo incontrato ieri sulla via interrotta dalla frana per Skardu. Anche lui è venuto a visitare la valle di Hunza. Come immaginavo, sta per andare via da qualche parte a bordo di un grosso fuoristrada con autista. Mi lascia il suo biglietto da visita sormontato dalle stelle in cerchio della Comunità Europea. “Se ripassi per Islamabad vienimi a trovare, ci prendiamo un tè insieme nel mio ufficio”.

La sala ristorante è paurosamente a picco sul vuoto. Ho paura a sporgermi, sembra che debba andar giù da un momento all’altro, tanto è abbarbicata sulla roccia. In compenso il panorama è unico, un po’ meno il cibo che arriva dopo più di un ora e non è granché.

La notte la passo in una camera con vista sul Rakaposhi e sulla valle di hunza.

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Qui il generatore elettrico stenta a partire e la sera in camera sono a lume di candela.

12-06 Mercoledì:

Lascio l’hotel e torno sulla KKH rinnovata made in Cina. La strada è nuovissima e si viaggia sul velluto, in Pakistan strade così è difficile trovarne. Ma già l’asfalto in parecchi tratti è danneggiato dalle pietre che continuano a cadere. Basta solo un po’ di vento o pioggia per rendere vano il lavoro fatto per ricostruire la KKH. Mentre sto guidando riesco per un soffio ad evitarne una.

Vedo una grande nuvola di polvere e mi arresto immediatamente. Pochi metri avanti cadono dei grossi massi sulla nuovissima strada, ancora in fase di ultimazione. Aspetto un po’, poi lentamente passo a zig zag tra le pietre. Proseguo verso nord, vorrei vedere il famoso confine con la Cina, ma so che la KKH è interrotta da circa tre anni per un enorme frana caduta dalla montagna la quale ha creato una diga naturale sul fiume che scorre nel fondovalle.

Ci arrivo presto e osservo uno sconcertante panorama: la strada termina dentro un bel lago azzurro che riempie completamente la valle. la KKH è sommersa dal lago lungo circa 20 km che si è formato dopo che la barriera naturale ha bloccato il fiume.

Il governo pakistano ha cercato di rimuovere l’ostacolo con l’uso di cariche esplosive, ma i flutti rischierebbero di sommergere dei villaggi del fondovalle. Sono riusciti a creare uno sfogo per far defluire l’acqua in eccesso. Il nuovo lago rimarrà dunque a far parte del panorama.

Ora tutti mezzi si fermano sulle sponde del grande lago e le merci e persone vengono trasportati con dei piccoli battelli da una parte all’altra.

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Un operazione che richiede molto tempo e i cinesi non possono certo tollerare un simile rallentamento alle loro merci. Infatti sono già da tempo all’opera per costruire una variante che passa attorno al lago. Sono già a buon punto e stanno anche costruendo una lunga galleria per attraversare la montagna, ma ci vorrà ancora qualche anno per ricollegar la KKH alla Cina.

Rimango un po’ ad osservare il frenetico lavoro di trasbordo delle merci dai camion ai battelli. Dopo qualche minuto mi si avvicina un traghettatore che mi dice che con la sua imbarcazione potrebbe trasportare anche la mia macchina. Ma quando mi chiede 200 dollari, lascio perdere l’idea di raggiungere la frontiera con la Cina. Mentre sto per andare via il traghettatore mi fa un ultimo prezzo: 150 dollari andata e ritorno. Lo ringrazio per lo sconto, ma gli dico che non ho realmente il bisogno di andare di là. Era solo per scattare qualche foto. Quest’anno non ho la possibilità di raggiungere la Cina. E’ troppo complicato e costoso ottenere gli indispensabili documenti doganali per l’auto.

Torno sui miei passi e mi fermo per la notte nei pressi di Gilgit.

Per tornare a Islamabad ho intenzione di attraversare lo Shandur pass, raggiungere la bella Chitral, visitare la valle di Bumboret abitata dal popolo dei Kalash, e dopo Dir arrivare nella capitale Pakistana. Ho ancora tempo a disposizione, il visto del Pakistan scade il 23 giugno.

13-06 Giovedì:

Riattraverso Gilgit. Oggi la cittadina non è ingombra dai fedeli come giorni fa, ma il caos del bazar rende lo stesso molto difficoltoso il suo attraversamento. Chiedo più volte la strada da prendere per lo Shandur pass, non tutti lo conoscono, e a volte vengo mandato nella direzione sbagliata.

Gilgit è una specie di labirinto, ma alla fine riesco ad uscirne e a prendere la giusta via. La strada si infila in una bella valle laterale abbastanza ampia, con un grande fiume che scorre a fianco. Qui la strada è asfaltata ed attraversa vari villaggi costruiti vicino al fiume, ma so che nei pressi del valico di 3.700 m., diverrà uno sterrato difficile, speriamo bene.

Il fiume si avvicina pericolosamente alla strada, riempiendo quasi totalmente la valle. A sera arrivo ad un posto di controllo polizia. I poliziotti mi danno una brutta notizia: “poco più avanti la strada è interrotta per uno smottamento creato dal fiume in piena. E’ impossibile passare. E’ successo poche ore fa. Se arrivavi stamattina saresti potuto andare al valico senza problemi. Erano un paio d’anni che non succedeva. Se vuoi puoi andare a vedere tu stesso. E’ un disastro.”

Queste parole mi gelano. Con la via interrotta crolla il mio programma di viaggio, niente più Chitral e valle di Bumboret. Proseguo e vado a vedere cosa è capitato. E’ buio, attraverso un villaggio, della gente mi fa segno di fermarmi, e poco oltre vedo la strada sparire.

Da quel poco che riesco a vedere con i fari, la strada non esiste più, è stata portata via dalla corrente. Parecchia gente sta sul bordo ad osservare. Un uomo mi dice che succede spesso all’inizio dell’estate quando la temperatura sale ed i ghiacciai si sciolgono. Secondo lui forse domani a mezzogiorno si potrà passare.

Speranzoso decido di tornare l’indomani, e mi fermo a dormire in un boschetto poco distante.

14-06 Venerdì:

A metà giornata torno sul luogo del disastro, ma la situazione si presenta ancora più drammatica rispetto a ieri sera.
Durante la notte la forza dell’acqua è aumentata portandosi via anche una ventina di case e una scuola femminile che erano nei pressi della strada, la quale è interrotta per un centinaio di metri.

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Sul luogo del dramma sono presenti vari mezzi di soccorso e camioncini che stanno raccogliendo le povere cose che la gente è riuscita a recuperare tra i flutti. Mi confondo tra la folla, e sgomento osservo il disperante panorama. Alcune persone piangono, altre in mezzo al fiume, cercano di recuperare qualche oggetto risparmiato dalla forza distruttrice dell’acqua.

Una porta, una parte di un mobile. Pezzi di vita affiorano di tanto in tanto tra la corrente.
Parlo con la gente, mi dicono che per fortuna non ci sono state vittime, ma il danno economico è notevole. Si tratta di un povero villaggio di gente che vive di agricoltura e pastorizia, e sarà molto difficile per loro trovare il denaro necessari a ricostruire le proprie case.
Per fortuna il governo pakistano ha già inviato delle tende che dei militari stanno montando in uno spiazzo poco distante, ma la vita per questa povera gente non sarà più la stessa.
Inutile parlare della strada, qualcuno dice che ci vorranno almeno 10 giorni per ripristinarla.
Sconsolato torno sui miei passi, riprendo la KKH in direzione di Islamabad.
Per la notte mi fermo nello stesso posto di 10 giorni fa vicino alla strada sterrata per Fairy Meadows, il lussuoso resort al campo base del Nanga Parbat.

15-06 Sabato:

Dopo una notte ventosa e piovosa, un bel risveglio fresco e senza sole. Forse è il monsone che sta arrivando. Immagino che lo troverò più a sud, sulla via per l’India.

Davanti a me osservo con attrazione magnetica gli arditi tornanti che portano a Fairy Meadows, sembra veramente una strada solo per le aquile, come veniva definita in un filmato su youtube.

Prima di partire avevo visto tante foto del bellissimo luogo verde alla base del Nanga Parbat, e sognavo di raggiungerlo, ma la strada è “privata”, a solo appannaggio del resort di alta quota.

Ma inaspettatamente trovo la sbarra di accesso alla strada aperta e non c’è nessuno. Non resisto a tentare la salita. Il viottolo stretto e pietroso è abbarbicato alla montagna, e sale subito ripido su un terreno cedevole, ma in 4×4 si va.

Ho la parete di roccia irregolare a sinistra e il baratro a destra, appena pochi centimetri dalle ruote. Mentre salgo lentamente, sento un botto prima alla ruota anteriore, e poi alla posteriore destra, come se fossi entrato in una grossa buca. Guardo dallo specchietto e vedo che una parte dell’esile massicciata fatta con sassi incastrati tra loro ha ceduto mentre ci passavo sopra.

Comincio a pensare che è stato un errore salire qui, ma ormai è impossibile girarsi. La salita prosegue con vari tornanti strettissimi dove sono costretto a fare manovra tanto sono acuti.

Ora “la strada delle aquile” si infila in una stretta valle laterale, addossata alla montagna la traccia è strettissima con lo strapiombo che sfiora le ruote alla mia sinistra. Cerco di non guardare giù e di non pesare a come fa a tenersi il sentiero.

Basta che qualcuna delle pietre incastrate tra loro che sorreggono la stradina cede che… addio Pakistan. Cerco di scacciare il pensiero, sono obbligato a salire. Dietro una curva incontro degli operai che tentano di sistemare la strada, spostando con delle pale dei sassi.

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Loro mi sconsigliano di proseguire, dicono che oltre peggiora ancora, ma come girarsi? Non ci peso nemmeno di riscendere in retromarcia per diversi chilometri.

Proseguo ancora un po’ fino ad una curva a 90 gradi, ho sempre il baratro a sinistra e non riesco a vedere dietro alla curva. Sul viottolo ci sono dei grandi massi caduti, e credo di non farcela a passare tra di essi

. Immagino che gli esperti autisti delle Jeep che portano i turisti a Fairy Meadows, ogni tanto scendono e fanno manutenzione alla strada spostando i sassi più grandi, o rimettendo al loro posto quelli necessari a sorreggere l’esile stradina. Ma io sono solo e qui mi è anche impossibile scendere.

Noto però che poco prima della curva c’è un piccolo slargo tra un masso e l’altro, e forse con un po’ di pazienza potrei riuscire a girare la macchina        Qui rimpiango la Panda! Regolo gli specchietti in modo da vedere le ruote posteriori, e comincio a indietreggiare fino all’orlo dell’abisso. Faccio diverse manovre al centimetro, e per girarmi sono obbligato a passare su una grande pietra alta più di 30 centimetri. Non posso scendere a spostarla, devo passarci sopra. La Dacia si solleva quando col sottocoppa mi ci appoggio, ma continuo lo stesso a fare la manovra avanti e indietro, non ho altra scelta.

Finalmente ce la faccio a girarmi, ma la grossa pietra è ancora sotto. La devo far passare sotto tutta la macchina, finché la vedo uscire da dietro.Non so cosa sia successo al fondo dell’auto, ma sembra che va.

Ritorno dagli operai che paiono felici che sto scendendo. Uno di loro mi chiede un passaggio. Riesco a fargli un po’ di posto spostando la carrozzella dietro, e insieme scendiamo.

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Mi preoccupa quel tratto che aveva ceduto mentre salivo, ma il fatto di avere un aiutante a fianco mi rasserena un po’. Quando arriviamo al punto critico, Salim dice di passare. “Vai che regge!” Io mi addosso il più possibile alla montagna e passo con le ruote anteriori, ma quando sento che il posteriore comincia slittare verso lo strapiombo mi arresto.

Salim scende dalla macchina come un fulmine. Io osservo lo strapiombo a sinistra, la macchina è inclinata e la ruota posteriore sinistra è al limite.

Già vedo la Dacia che rotola giù, mentre urlo a Salim di mettere qualche pietra nel punto dove mancano, ma lui è lì fermo che guarda la scena.

Poi si decide a spostare qualche sasso ma davanti, dove il terreno c’è. Mi dice: “vai avanti non c’è problema!” Mi faccio coraggio e proseguo, la ruota sinistra salta nel vuoto ma passo! Salim contento rimonta su, ormai siamo quasi arrivati alla Karakorum Highway.

Giunti sulla strada principale Salim mi saluta ed entra nell’hotel “Shangri La”, da dove partono le Jeep dirette a Fairy Meadows. Io riprendo la KKH in direzione di Islamabad, ancora distante 500, o più, chilometri.

Sull’asfalto mi accorgo subito che c’è qualcosa che non va. Il volante e molto storto, e la Dacia non tiene la strada. Appena supero i 50 km all’ora sento le ruote fischiare poiché fuori asse slittano sull’asfalto.

Con le botte che ha preso, deve essersi piegato qualcosa, ma qui non c’è nessuno e proseguo così per un centinaio di chilometri, finché ad un villaggio trovo un meccanico.

Lui guarda sotto l’auto ma dice che è tutto ok. Cerca di risolvere agendo sulla convergenza, anche se so che non può essere quello il problema.

Per capire di quanto spostare la regolazione usa il metro! Semplicemente misura quanti centimetri mancano a sinistra per raddrizzare il volante. Impiega poco, poi mi dice di provare.

In effetti ora il volante è quasi centrato anche se il fischio delle ruote e la tenuta di strada non è cambiata. Lo ringrazio per la buona volontà e proseguo. Qui la KKH è ancora originale, non ancora rinnovata dalle ditte cinesi, ed è tutta una buca, quindi non sento il bisogno di andare oltre i 50 kmh.

Poco prima di Besham, mentre attraverso un tratto pietroso in seguito ad una vecchia frana, sento un “crack” provenire dal posteriore destro. Dallo specchietto vedo la ruota destra inclinata. Andando a passo d’uomo riesco a giungere a Besham, che è un grande villaggio, dove trovo dei meccanici.

Ora il problema è ben visibile: si è spezzato di netto uno dei tiranti che tengono il blocco ruota e sospensione posteriore destra. Si dev’essere storto sulla strada del Nanga Parbat, la montagna maledetta, poi continuando sulle buche della KKH si è tranciato. Per fortuna che ha tenuto fino qui.

Anche se ormai sera i meccanici si mettono subito all’opera, ed in breve risaldano il pezzo sovrapponendoci sopra un rinforzo.

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Dicono che terrà. Faccio una prova e ora va bene! Il volante adesso è storto dalla parte opposta, poiché il difetto originario è stato risolto, ma funziona.

I meccanici sono soddisfatti e felici di aver risolto il problema che mi consentirà di proseguire il viaggio nella loro nazione e oltre. La notte la passo in un hotel fuori Besham, per riprendermi dalle emozioni dell’intensa giornata.

18-06 Martedì:

Dopo due giorni senza storia passati a guidare sulla KKH fino a Islamabad, e da lì in autostrada verso sud, eccomi a Lahore, antica città di origini Mogul vicina al confine con l’India. Ci arrivo a tarda sera, e nel caldo afoso pre monsonico, mi perdo nel caoticissimo traffico all’indiana del centro città.

Anche se notte fonda il traffico non sembra diminuire, anzi pare come se tutta la popolazione sia in strada con i mezzi più disparati.

Risciò a pedali e motorizzati, motorini con su fino a 4 persone, carretti tirati da muli e da persone, auto di ogni genere, camioncini piccoli e grandi, minibus stracolmi di gente e autobus, con persone anche sul tetto.

Non riesco a capire dove stia andando questa moltitudine strombazzante, ma io, essendoci nel mezzo, sono costretto a seguire il fiume in piena.

Finalmente giungo alla stazione centrale, costruita in stile coloniale durante la dominazione inglese. Ricordo che nel 2004 dormii in un hotel qui vicino, ma è quasi l’una di notte. Inutile spendere soldi per una camera che non riuscirei neanche a sfruttare.

Arrivo nei pressi della splendida fortezza di origini Mogul, e trovo un vicolo buio vicino alle sue mura fatte di mattoni rossastri. La luna quasi piena appannata dall’aria carica di umidità, illumina di una luce soffusa le grandi cupole marmoree della vasta moschea costruita dentro alla cittadella fortificata. Decido di dormire qualche ora qui, non ne posso più di guidare senza meta tra i carretti del bazar che tra qualche ora aprirà. In fondo al vicolo scorgo altre persone che dormono su dei vecchi carretti.

Notte magica, ma dall’aria quasi irrespirabile per il caldo soffocante e lo smog. Anche il piccolo stagno, che in parte circonda il forte, contribuisce a rendere puzzolente il luogo.

19-06 Mercoledì:

Magico risveglio all’alba con le perfette forme dell’architettura Mogul di fronte, fatta di cupole di marmo bianchissimo e torrioni rossi.

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Faccio le mie abluzioni usando l’acqua contenuta in una bottiglia. Noto che anche i miei vicini fanno altrettanto mentre riaprono il carretto-letto e lo trasformano in un mini negozio. Immagino che quel carro rappresenti la loro casa, e tutti i loro averi. Anche io vivo in un “carretto”, anche se certamente più lussuoso, e nei loro confronti sono ricchissimo, ma oggi in questo vicolo maleodorante mi sento molto vicino a loro. Infatti, mentre faccio una frugale colazione, i miei vicini mi danno un caloroso buongiorno.

Col passare delle ore il caldo si fa sempre più insopportabile, farà almeno 40 gradi con un umidità del 100 %. Si fatica a respirare, eppure la gente di qui si muove continuamente senza sosta.

Lahore sembra un enorme formicaio, visto che è molto presto provo a visitare lo splendido forte, ancora non assediato dai turisti, o forse non presenti in massa in questa stagione torrida.

Come mi avvicino si presenta un signore di mezz’età che si definisce guida turistica, e si offre per accompagnarmi a scoprire gli splendori della cittadella fortificata. Accetto di buon grado, così evito di affaticarmi troppo sulle salite per raggiungere i vari ambienti della cittadella. Sono stanco accaldato ed il mio stomaco è in disordine.

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Ali mi spinge per i curatissimi viali fioriti dei grandi giardini interni, dove gli imperatori Mogul intrattenevano gli ospiti. Ali racconta la storia degli sfarzosi palazzi ma va velocissimo, sembra che abbia fretta di finire la visita per ricevere il suo compenso. Mi racconta che l’enorme albero dove ci fermiamo per un attimo di riposo ha 400 anni, poi passando vicino a delle amplissime scalinate che portano alle residenze reali, mi dice che era uso degli imperatori farle a dorso di elefanti.

In alcune aree della cittadella vi erano le stalle per gli elefanti e gli appartamenti per la notevole servitù.

Dopo una ripida salita giungiamo alla parte alta della cittadella, dove circondata da altri bellissimi giardini ci sono le abitazioni più lussuose. L’architettura dai bellissimi porticati lavorati e dalle forme incuneate, mi riportano alla mente il forte rosso di Agra, nei pressi di Dehli. Infatti, mi spiega Alì, anche il forte di Agra apparteneva ai Mogul, quando India e Pakistan rappresentavano una unica grande nazione.

Ali parla veloce e mi porta da una parte all’altra del vastissimo forte. Di fronte ad una lunga ripidissima scalinata che accede ad uno splendido portale, porta d’ingresso alla vastissima piazza delle moschea, Ali vorrebbe portarmi sulle sue spalle fin lassù per farmi visitare anche la grande e meravigliosa moschea, ma io non vedo l’ora di trovare un posto fresco dove riposare, non mi sento per niente bene. Il mio intestino grida vendetta!

Finiamo per girare anche un po’ per il bazar che circonda il forte, e i forti odori che emanano i suoi vicoli contribuiscono ad acuire il mio malessere.

Fermo Ali, che non so dove trovi tutte queste energie, e gli chiedo dove posso trovare un hotel comodo con aria condizionata fuori dal caos, e lui mi consiglia la Mall road dove ce ne sono diversi, anche lussuosi. Ma mi dice che una notte lì mi può costare anche più di 100 Dollari. Ora ho bisogno al più presto di un posto pulito dove stare, il prezzo per oggi rimane in secondo piano.

Pago al gentile cicerone l’equivalente di 20 Euro, e rimonto in macchina apprezzando la comodità dell’aria condizionata. La Panda è un auto fenomenale e per me insuperabile, ma venire a giugno quaggiù senza AC sarebbe stato un suicidio.

Arrivo alla Mall road che dev’essere una specie di via Veneto di Lahore, e qui trovo l’hotel Avaria, che da fuori sembra una specie di fortezza antinucleare, tutto di cemento armato com’è.

Entrare nel grande giardino e parcheggio interno è un impresa, mi sembra di entrare dentro l’ambasciata italiana di Kabul. Prima dell’alto cancello di ferro nero, dei poliziotti controllano ogni auto con speciali apparecchi, che penso anti esplosivi, poi dentro un ulteriore barriera dove le macchine vengono ancora controllate con specchi per vedere il fondo delle auto.

Sembra di entrare in un carcere di massima sicurezza, ma ormai ci sono e non posso mettermi a cercare altro. Fuori è un palazzone grigio, ma dentro gli ampi ambienti sono stupendi, sono capitato in un hotel di gran lusso.

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All’ingresso, degli impettiti portieri in alta uniforme con dei buffi copricapi a forma di cresta di gallo, mi ricordano quelli usati dai corpi militari speciali che stazionano alla frontiera Pakistan-India a 20 km da qui.

Cerco di non fare caso al prezzo di quasi 100 Euro, e prendo un bellissima stanza a mezzogiorno. Riposo fino al tardo pomeriggio, poi riaffrancato pranzo in uno dei tre ristoranti interni, tutto inchini, vicino ad una zampillante fontana. Spendo 20 Euro, però mangio una buona bistecca con patata al forno dalla cottura perfetta che mi rimette un po’ in sesto. Passo tutta la giornata a riposo. Notte condizionata, pensando al Wahga border, unica frontiera tra Pakistan e India aperta al transito internazionale, che mi aspetta domani.

20-06 Giovedì:

Lascio il costosissimo hotel, e prima di andare in frontiera torno a visitare la stazione ferroviaria centrale, che nel 2004 mi aveva affascinato.

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A quel tempo ero qui con la Panda ad ottobre, e girare a piedi per Lahore era certamente più piacevole con temperature accettabili.

Sfido comunque il caldo opprimente, ed entro nella bella stazione ferroviaria costruita al tempo dell’impero inglese. L’architettura è infatti tipicamente inglese con torri merlate rossastre. L’interno è gremito di gente multicolore che aspetta di partire con i vecchi convogli.

Osservo che alcuni vagoni non sono vecchissimi come li ricordavo nel 2004, ma paiono quasi nuovi. Noto infatti la data di costruzione risalente al 2011, e la dicitura “made in China”.

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Nel 2011 ricorreva il 150 esimo anniversario di questa linea ferroviaria, ed evidentemente in quell’occasione hanno rinnovato qualche vagone, ma le motrici sono sempre vecchie ed emanano un nerissimo fumo dai loro motori diesel, tanto da sembrare i locomotori originari a carbone, che ancora stazionano fuori a ricordo dell’epoca coloniale.

Attorno ai binari ci sono vari chioschi che vendono bevande per alleviare la calura dei viaggiatori, che sembrano senza fretta. Il treno non si decide a partire, e deve ancora arrivare la motrice.

Chiedo ad uno dei passeggeri quanto occorrerebbe per un tragitto da qui a Islamabad, a circa 400 km., lui mi dice dalle 8 alle 12 ore.

Rimonto in macchina, e mi reimmergo tra i tuc tuc, carretti trainati da cavalli, bici e vari mezzi per raggiungere la frontiera a circa 20 km da qui.

Mi è stato detto che chiude alle 18, e ora sono già le 15 e 30. Dovrei fare in tempo.

Per il traffico ci arrivo che sono quasi le 17, e noto già una notevole folla di gente che si avvicina al grande e importante Wahga Border.

In questa particolare frontiera, da anni ogni pomeriggio al momento della chiusura si ripete un seguitissimo spettacolo, da entrambe i lati, che culmina con l’abbassamento in contemporanea delle bandiere pakistane ed indiane. Entro nei nuovi uffici doganali portando con me passaporto e carnet auto, ma dentro non c’è quasi nessuno. Un militare mi da la brutta notizia che la frontiera è già chiusa poiché si può passare fino alle 15 e 30.

“Torna domani, ora se vuoi puoi assistere alla festa della bandiera, tra poco inizia. Anzi ti consiglio di andare subito a prendere posto”, mi dice il gentile milite.

Forse è meglio così, è da tanto che volevo assistere a questo spettacolo, che tante volte ho visto nei documentari.

Il sole nebbioso sta calando e attraversa il grande portale del lato pakistano di Wahga, la luce rossastra colpisce in pieno il portale sul versante indiano dominato da una grande immagine di un Ghandi dal sorriso benevolo.

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E’ un luogo dal grande fascino e già immagino la grande emozione che proverò domani entrando in India.

La gente prende posto sulle scalinate poste ai due lati dell’ampia strada frontaliera, attorniata da curatissimi giardini fioriti. Sul versante indiano medesima scena. Entrambi i lati sono ricolmi di persone che cominciano ad intonare inni patriottici, sembra un match, Pakistan vs India.

Nei giardini ombrosi i corpi speciali dei “Border Rangers” si preparano, facendo ginnastica alle gambe, per la sfilata. Il percussionista, che seguirà il cadenzato passo dei militari accorda il suo grande tamburo. Sembra un evento organizzato con grande cura nei particolari.

Sentendo il forte rumore proveniente dalle lucidissime calzature dei militari che si apprestano a sfilare, chiedo loro se hanno un qualcosa di particolare. Lui alza un piede e scorgo una parte metallica applicata sul tacco.

“Un po’ come i ferri dei cavalli”, gli dico sorridente. Lui annuisce, mentre in un crescendo di inni inneggianti al Pakistan cadenzati dalle percussioni, lo spettacolo va iniziando. Con un rullare di tamburo e uno squillare di trombe, con un passo velocissimo, sbattendo con forza i piedi a terra, arrivano in gruppo i “Rangers” con le loro particolari uniformi nere sormontate da buffi copricapi che ricordano la cresta di un gallo.

Dall’alto del portale d’accesso, il comandate urla delle frasi che la folla, come in preda ad un estasi, ripete con forza accompagnata dalle percussioni.

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In un crescendo di passerelle militari su entrambi i lati, e sfidandosi l’un l’altro in minacciose espressioni e gesti, i “Rangers” si posizionano a ridosso del cancello che divide il Pakistan dall’India.

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I militari indiani, vestiti in uniformi giallognole, dallo stesso copricapo qui di colore rosso sgargiante, fanno altrettanto. Marcano la frontiera in andature una opposta all’altra sbattendo violentemente i piedi sull’asfalto a pochi centimetri gli uni dagli altri, divisi solo da un esile linea bianca.

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Sembrano dei galli sull’orlo di un combattimento all’ultimo sangue. In movimenti a scatto, ma sincronizzati, slacciano le corde che fissano le bandiere, e all’unisono, le abbassano tra squilli di trombe, tamburo, e frasi a squarciagola.

Di qua “Pakistan zindabad!”, di là “Industan zindabad!”. La bandiera accuratamente piegata, viene trasportata dai “Rangers” al comandante, e lo spettacolo si chiude. Domani sera si replica.

La gente lascia la zona attraverso un percorso obbligato. Il viale tra il verde giardino affianca un uguale viale sul versante indiano ad un paio di metri di distanza divisi solo da una catena controllata dai militari.

I due viali culminano in una piazzetta dove pakistani ed indiani sembrano quasi toccarsi e poter passare, ma integerrimi soldati, uno di spalle all’altro, controllano ogni persona. Qui la gente si scatta fotografie. I pakistani con dietro gli indiani e viceversa sull’altro lato.

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Chiedo ad un signore se è possibile per un cittadino pakistano andare in India, e lui risponde: “E’ complicatissimo. Il visto indiano a noi viene rilasciato solo in casi eccezionali. lo stesso per gli indiani che volessero venire in Pakistan. Io stesso ho dei parenti di là che non posso visitare. Ci sentiamo solo per telefono.”

Lascio anch’io il luogo pensando di essere uno dei pochi fortunati che domani, forse, potrà passare in India. Emozionato, ritorno allo stesso hotel.

21-06-Venerdì:

Dopo aver saluto i camerieri ed il personale della hall, ormai amici, ai quali ho mostrato il blog del viaggio, lascio il lussuoso, ma confortevole hotel Avaria (il nome è appropriato, non mi hanno concesso neanche una Rupia di sconto). Esco ed il caldo soffocante di mezzodì mi lascia senza fiato. Faccio fatica a raggiungere il piazzale dove è parcheggiata la macchina, ovviamente sotto al sole.

Non so come ma riesco montare su, condizionatore al massimo e via per il traffico di Lahore. Ormai mi sento uno del posto e neanche ci faccio più caso al “sistema” di guida che si usa qui. Anch’io guido allo stesso modo degli abitanti di Lahore, altrimenti non riuscirei a fare un metro. Mi sembra presto e ne approfitto per far lavare l’auto in una stazione di servizio. In una ventina di minuti torna come nuova, e velocemente torno alla frontiera.

Km 71.839: Frontiera Pakistan-India

Questa volta sono in orario. Noto un pullman con sulle fiancate le bandiere di India e Pakistan, che è appena arrivato dall’India. Si tratta di uno dei pochi bus che varcano questo particolare confine. Un debole segno di distensione tra i tesi rapporti tra Pakistan e India.

Mi fermo all’ufficio doganale pakistano, ed entro portando con me carnet auto e passaporto. L’ufficio è nuovo e più ampio rispetto a quello che ricordavo del 2004. La grande hall centrale, dotata anche di nuovissimi nastri trasportatori per i bagagli dei turisti (ma non c’è nessuno a parte me), la fa sembrare un po’ un aeroporto.

Appare una persona che dice di ricordarsi di me quando passavo di qui con la Panda nel 2004, si chiama Fasil. Lui mi accompagna in una stanza dove i doganieri siedono stravaccati davanti ad un condizionatore. Sembrano quasi infastiditi di dover interrompere il loro ozio per riportare i miei dati sui loro registri.

Il mio “amico” di quasi 10 anni fa li aiuta nella compilazione del mio carnet. Fasil (che non credo sia un doganiere, ma uno dei soliti trafficoni che sempre gravitano intorno alle frontiere) sembra più pratico dei militari nelle procedure doganali. Alla fine timbra lui stesso il carnet e riempie i registri della dogana.

Al comandante non resta che apporre la sua firma, ed in breve mi trovo a passare sotto l’arco di uscita dal Pakistan, lo stesso dove ieri sera ho assistito allo spettacolo della cerimonia di chiusura della frontiera, che tra qualche ora verrà ripetuta.

All’ultimo cancello i militari pakistani con i loro buffi copricapi a forma di cresta di gallo ricontrollano i timbri sui miei documenti, e mi aprono la sbarra.

INDIA:

Con una certa emozione passo sotto al portale sormontato dalla foto sorridente di Gandhi. I militari indiani mi accolgono con un “welcome to India”, e mi indicano la via per gli uffici doganali, che ricordavo piccoli e polverosi, poco più avanti sulla strada. Invece ora è tutto diverso.

Il “traffico” (quando arriverà) viene deviato da un’impeccabile segnaletica in una vastissima area, dove vi sono gli uffici doganali, molto grandi e nuovissimi, dotati anche di parcheggio disabili. Ma tanto spazio vuoto fa sembrare questo luogo una cattedrale nel deserto.

Dopo poco esce qualche militare, che capito il mio impedimento mi dice di rimanere in macchina. Consegno loro i documenti e carnet. Altri militi mi sono attorno curiosi e increduli del fatto che sono arrivato fin qui dall’Italia alla guida di un auto che anche in India sta diventando famosa.

“Ma sei giunto dall’Italia con la Renault Duster? E come mai sulla tua il volante è a sinistra e davanti c’è scritto Dacia?”. Mille domande alle quali cerco di rispondere ancora incredulo di essere in India.

Uno dei motivi per i quali ho scelto la Dacia Duster era quello di essere un auto prodotta dal gruppo Renault per il mondo emergente in vari stabilimenti sparsi nel globo, alcuni dei quali nei luoghi dell’Asia a me cari, in modo da poter trovare assistenza meccanica anche in corso di viaggio. Infatti circa sei mesi fa è partita la produzione della Renault Duster (fuori dall’Europa le Duster riportano il marchio Renault) nello stabilimento indiano di Chennai, e da quello che mi dicono i militari, sta già riscuotendo molto successo.

La mia è “particolare” per la guida a sinistra e per i comandi al volante sofisticati. Si forma subito un capannello di gente che mi circonda togliendomi il fiato. Per fortuna che i doganieri fanno presto, ora mi attende il controllo bagagli da effettuare in un altra area. Quando ci arrivo la macchina viene perquisita minuziosamente anche con l’uso di cani antidroga.

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Il doganiere, con in testa il caratteristico stretto turbante dei Sikh, mi dice: “è strano, due auto italiane nello stesso giorno. Questa mattina è transitato un vecchio camper guidato da due anziani fratelli partiti dall’Italia. Anche loro sarebbero andati verso il Kashmir e Ladakh, magari li incontrerai. sul tuo percorso.”.

Anche lui è interessato alla mia auto e vuole sapere come va, visto che suo fratello ne ha appena acquistata una ed è in attesa di ritirarla. Gli chiedo se conosce una concessionaria-officina Renault nella prima città indiana, Amritsar, a poche decine di chilometri da qui, per poter effettuare il cambio olio e controlli vari. Lui annuisce e mi scrive l’indirizzo dicendomi che non è distante e si trova sulla tangenziale che gira attorno a Amritsar, città famosa per il “Tempio d’Oro”, luogo sacro per le genti Sikh, il gruppo religioso di maggioranza in questa parte dell’India.

Nei primi chilometri che percorro in India cerco di carpire le differenze, e anche se all’inizio mi pare uguale al Pakistan appena lasciato, dopo poco un immagine della preparazione di un campo  per la semina del riso, con i bufali che trascinano lentamente l’aratro immerso nel fango, con la luce del tramonto, mi da l’idea di essere realmente in India.

I Sikh, con le loro lunghe barbe, sembrerebbero simili ai loro vicini in Pakistan, se non fosse per i turbanti blu o arancioni stretti sulla testa che indossano sempre. Quando li vedo alla guida dei motorini presenti ovunque, sembra quasi che il loro turbante svolga anche la funzione di casco motociclistico.

A forza di chiedere a varie persone dai coloratissimi costumi, arrivo alla concessionaria-officina Renault, più che altro per chiedere se domani possono fare il lavoro, visto che sono quasi le sei di sera.

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Il personale guarda un po’ perplesso la mia macchina. Se non fosse per la targa, la guida a sinistra ed il logo Dacia, sarebbe uguale alle tante Renault Duster pronte per la consegna.

Quando scendo immagino che per loro c’è veramente qualcosa di strano, forse  quasi impossibile, mentre racconto loro del viaggio che sto facendo.

Sono tutti intorno a curiosare la macchina. Studiano con interesse i comandi al volante, poi passano alla macchina, vogliono capire se ci sono differenze tra la mia europea e le loro prodotte in India.

Ma a parte la trazione integrale, ancora non prodotta qui, non trovano differenze, anche il motore diesel è lo stesso.

I manager della concessionaria, con i loro classici turbanti Sikh, mi dicono che possono fare il lavoro immediatamente, e incaricano i meccanici di cominciare subito.

Per fortuna la macchina non ha subito danni al sottoscocca, solo il tirante della sospensione posteriore che era stato saldato in Pakistan. Controllano la saldatura e dicono che va bene, ma chiedo loro se possono rinforzarla, visto che dovrà tenere per tutto il viaggio che mi separa dal Nepal e ritorno in Italia, dato che in India il pezzo nuovo non è disponibile.

Lo smontano e lo portano nel settore carrozzeria per fare una seconda saldatura di rinforzo, mentre un altro meccanico, anche lui col turbante e la barbetta a pizzo, sta cambiando olio e filtri forniti da me.

Fa un caldo tropicale con un umidità altissima insopportabile, non so come fanno a lavorare con quel copricapo pesante sulla testa, dal quale non si separano mai.

I manager mi invitano nel loro ufficio dotato di aria condizionata, vogliono conoscere i particolari del viaggio. Sul loro computer gli faccio vedere il mio blog, con il percorso e le foto fino al Pakistan. Rimangono sorpresi, e dico loro che vorrei raccontare anche della loro gentilezza per aver voluto fare subito il lavoro e vorrei anche metterci delle foto assieme al loro staff.

I manager ne sarebbero onorati, e appena i meccanici hanno terminato la loro magistrale opera, completa di perfetta convergenza e giro di collaudo, cominciamo a scattarci varie foto di gruppo, alcune con la mia fotocamere, altre con le loro.

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Controllo la doppia saldatura, metà pakistana e metà indiana, che mi dicono indistruttibile, ed insieme decidiamo di chiamarla “la saldatura dell’amicizia tra i popoli pakistani ed indiani”.

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Dopo poco arriva anche il direttore che mi comunica che non devo pagare nulla per il lavoro, e addirittura mi fa dono lui stesso di un “Tempio d’Oro” in miniatura!

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Sono delle generose persone dal grande cuore. A lavoro terminato, ormai notte, mi scortano anche ad un hotel poco distante.

Entro, e nella bella hall trovo una scultura di Shiva, già sono proprio in India, anche se il cameriere mi accoglie con un “buonasera”, visto che ha lavorato parecchi anni in Toscana, e ricorda un po’ l’italiano.

Come “Welcome to India” non poteva andare meglio!

 

22 giugno – 09 luglio:

Ora il mio viaggio prosegue verso nord, e lascio da parte la visita del “Tempio d’Oro” di Amritsar per il gran caldo di fine giugno.
Dopo le pianure coltivate a riso e grano, comincio a salire tra belle colline arrotondate completamente ricoperte da foresta, abitate da scimmiette dispettose, che ai lati della strada, aspettano il cibo dai viaggiatori, urlando e digrignando i denti.

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Dopo le colline entro nel Kashmir indiano, fiancheggiando la frontiera con il Pakistan.
Il Kashmir rimane un problema irrisolto, diviso com’è tra Pakistan e India, frequentemente lacerato da sanguinosi attacchi ai danni dei militari, i quali cercano di contenerlo entro gli instabili ed incerti confini del nord ovest dell’India con un enorme dispiegamento di uomini e mezzi.
I kashmiri, di religione mussulmana con una propria lingua e una cultura diversa da quella indu, mal sopportano l’oppressione militare indiana, e da decenni si battono per ottenere un Kashmir libero ed indipendente, che l’India difficilmente concederà.
Già decine di chilometri prima di giungere a Srinagar, il capoluogo del Kashmir indiano, devo attraversare innumerevoli chekpoint militari.
Quando finalmente arrivo nei pressi della città, la trovo completamente sotto assedio militare, con l’imposizione del coprifuoco, visto che pochi giorni fa, in uno dei numerosi scontri armati, dieci militari hanno perso la vita.
Ogni accesso alla città è bloccato da barriere di filo spinato, ma i militi stranamente mi fanno passare, quando spiego loro che ho intenzione di andare al vicino lago Dal, raggiungibile solo attraversando il centro di Srinagar.
Mi appare così una visione spettrale della mistica città, completamente deserta, se non fosse per i soldati in assetto da guerra presenti ad ogni incrocio.
Neanche un negozio aperto, ma saracinesche abbassate e viali vuoti, dove soltanto qualche cane e le onnipresenti mucche si muovono nell’atmosfera tesa.

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Le barricate terminano poco prima del bel lungolago, un tempo affollatissimo di turisti. Parecchie delle famose house boat, veri e propri alberghi galleggianti dai caratteristici portali di legno finemente intarsiati, marciscono ancorate al bordo del lago azzurro. Si vede soltanto qualche turista indiano ed i nuovi turisti cinesi, in cerca di vacanze a buon mercato.

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I barcaioli, con le loro coloratissime imbarcazioni a remi, che ricordano le gondole di Venezia, si litigano a prezzi stracciati i pochi turisti presenti.
Mi fermo sul lungolago e mangio nel giardino di un hotel deserto. Avevo quasi l’intenzione di fermarmi un giorno qui, ma quando l’albergatore mi informa che la sera stessa sarebbe arrivato in visita il primo ministro indiano, e avrebbe alloggiato in un lussuosissimo hotel sul lago, metto da parte l’idea di rimanere pensando al plausibile rischio di attentati nei suoi confronti da parte dei movimenti separatisti kashmiri.
Rimango giusto il tempo per ammirare il sognante lago Dal, con le sue placide acque ricoperte qua e la da fiori di loto solcate dai “gondolieri” kashmiri, che in passato è stato fonte di ispirazione per tanti scrittori, e riprendo il viaggio verso l’Himalaya prima che i militari blocchino completamente la cittadina.
Nei giorni successivi mi inerpico sempre più tra le valli del nord Kashmir, e poi dopo un valico a oltre 4.000 m. di quota, sormontato dalle bandiere di preghiera buddhiste, entro nel Ladakh, il “piccolo Tibet”.

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A Kargil, uno sbaglio di percorso fortuito mi porta alla scoperta della magica valle dello Zanskar, che si schiude ai miei occhi lentamente per le pessime condizioni della stradina sterrata la quale in 250 km porta a Padum, il centro abitato più grande.

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Percorro il viottolo con calma, cercando di assorbire ogni scorcio che la natura mi regala nelle terse giornate di fine giugno. Il cielo è limpidissimo per l’alta quota che caratterizza tutto il Ladakh, anche definito “il tetto del mondo”.

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Più volte oltrepasso valichi superiori a 4.500m. abitati da numerosi yak al pascolo e da strani muli di alta quota ricoperti da una particolare pelliccia necessaria per difenderli dai rigidi climi himalayani.

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Durante il tragitto montano dormo in macchina svegliandomi in luoghi fantastici,

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trovandomi talvolta circondato dagli yak e dai muli, incuriositi dalla mia auto che ingombrava una piccola parte dei loro vasti pascoli. Non so il perché ma sia gli yak che i muli preferivano mangiare l’erba attorno alla Dacia piuttosto che quella presente nelle amplissime distese verdi circostanti.

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Dopo un valico a quota 4.600 m. mi appare un incredibile visione di un lungo ghiacciaio che serpeggia sinuoso, somigliante ad una vasta autostrada di ghiaccio, tra vette alte forse 6, o 7.000 m. che si stagliano nette nel cielo azzurrissimo. Non avevo mai visto nulla di simile, mi sembrava quasi di poter toccare il ghiacciaio, il quale poi sciogliendosi forma un bel fiume che arriva a Padum.

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Attraverso vari villaggi tipicamente tibetani, dalle basse case bianche e dai caratteristici tetti ricoperti di sterpaglie e rami. Al centro di ogni villaggio, grandi rulli di preghiera che roteando portano nel cielo le preghiere dei monaci contenute al loro interno.

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Impiego due giorni di guida per raggiungere Padum, grande villaggio fulcro del turismo dello Zanskar.
Il paese a quota 3.500 m. offre al visitatore qualche piccolo hotel dotato di ristorante ed una manciata di semplici negozi di generi di prima necessità.

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In periferia trovo anche un piccolo distributore di carburante azionato a mano per mezzo di una manovella. Qui, armato di pazienza, (il benzinaio impiega il suo tempo per pompare 40 litri di gasolio a manovella) faccio il pieno.

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Nel centro di Padum trovo un locale con su scritto “internet caffè”. Entro pensando forse di aggiornare il blog, o di dare notizie di me a parenti e amici, visto che in tutto il Ladakh i cellulari occidentali non funzionano, ma con mia sorpresa l’interno è vuoto, solo qualche tavolo e seduto ad una scrivania un signore con un bel paio di baffi. Non so il perché, ma mi sembra un personaggio da circo, forse un domatore di leoni, per via dei suoi neri baffi che contrastano con la testa calva e lucente.
E’ uno di quei personaggi positivi, quasi magici, che puntualmente incontro di tanto in tanto durante il mio andare.

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Gli chiedo di internet, o di un caffè, ma invece colui che diverrà un amico, mi porge una tazza di tè bollente.
Sorridendo mi comunica che l’accesso ad internet è possibile al piano di sopra, ma non oggi per problemi di linea.
“Forse domani o dopodomani, chissà. Io uso questo locale più che altro come base per pianificare escursioni turistiche nello Zanskar. Posso organizzare trekking a piedi o in bicicletta, spedizioni di alta quota con tanto di portatori, passeggiate a cavallo o a dorso di muli, rafting nei torrenti escursioni ai monasteri e altre attività all’aria aperta, ma non chiedermi di internet. Poi qui anche l’energia elettrica va a singhiozzo”.
Padum è un posto particolare, incastonato tra alti monti in mezzo ad una vasta vallata solcata da un fiume dal colore blu intenso.

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Qui finisce la strada carrozzabile, e Leh, capoluogo del Ladakh, è raggiungibile solo tornando a Kargil, e da lì seguire la lunga strada per Leh, oppure intraprendendo un lungo trekking a piedi attraverso le montagne.
Rimango qualche giorno nella tranquillità di Padum, e in un monastero appena fuori paese mi capita anche di assistere ai festeggiamenti in onore del settantottesimo compleanno del Dalai Lama. Tantissima gente di tutte le età si assiepa attorno al monastero addobbato da bandiere di preghiera appese ai tetti dorati che svettano nel cielo terso d’alta quota.

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Le candide cime himalayane sullo sfondo. E’ un posto di grande fascino, le musiche tibetane riempiono l’aria, delle ragazze in costumi tradizionali danzano in cerchio attorno ad una grande immagine del Dalai Lama, mentre i monaci lamaisti osservano lo spettacolo proteggendosi dal sole con degli ombrelli colorati. Ogni tanto altri monaci offrono gratuitamente a tutti i presenti bevande e cibo.
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Festa Zanskar 5

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La festa dura qualche ora, poi sul fare della sera le musiche si placano e la festa si spegne. Lentamente le persone presenti si allontanano per intraprendere il lungo viaggio verso i rispettivi villaggi persi tra le pieghe dell’Himalaya.
Anch’io decido di cominciare a tornare sui miei passi per raggiungere nuovamente la “città” di Kargil, e da lì prendere la strada degli alti valichi per raggiungere Leh.
Ma prima approfitto dell’amicizia del mio amico “domatore di leoni” per fare spesa nel piccolo bazar, dove trovo anche una pasticceria nella quale acquisto un ottimo cake per le colazioni dei miei prossimi giorni che passerò tra i monti viaggiando verso Leh.

 

10-luglio Mercoledì:

Dopo aver valicato il passo Fotula La di 4.100 m., vedo in fondo ad una stretta vallata rocciosa il grande monastero lamaista di Lamayuru.

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Il monastero aggrappato tra le rocce e avvolto tra infinite bandiere di preghiera, illuminato dalla calda luce del tramonto, rende la visione fiabesca.
Mi avvicino, e subito vengo circondato da monaci curiosi che vogliono sapere da dove vengo. Alcuni di loro sono bambini, che qui studiano le arti buddiste.
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Si sta già facendo sera, e sia Lamayuru che l’hotel vicino, hanno un infinità di scale per accedervi. Rimango comunque a cena nel ristorante dell’hotel al pian terreno.
Qui alloggiano turisti di varie nazionalità. Una signora tedesca mi tiene compagnia. Lei è una gran conoscitrice del luogo che ha già visitato tre volte.
Chiacchierando in un misto di tedesco e inglese scopro che Elvira è anche un’appassionata frequentatrice della nostra Toscana, che ama profondamente.
Fa strano parlare della terra di Dante quassù, vicino all’Himalaya tra monasteri tibetani, anche se proprio in Toscana è presente un monastero buddista con scuola lamaista costruito in stile tibetano.
Dopo cena ci salutiamo con l’auspicio di rincontrarci da qualche parte, magari in Toscana.
Notte a 80 km da Leh.

 

11-12 Luglio:

Finalmente giunto a Leh, capoluogo del Ladakh, mi concedo una sosta di due giorni in un piacevole hotel dal giardino curatissimo. Sento il bisogno di una pausa dopo il tanto guidare dei giorni scorsi.

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Girovagando per la cittadina incontro per caso dei turisti italiani con cui passo una serata raccontandoci del nostro viaggiare. E’ bello parlare nella propria lingua dopo tanti mesi.

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Nei giorni seguenti decido di oltrepassare il valico carrozzabile più alto del mondo, il Khardung-La alto 5.600 m, per raggiungere le valli della Nubra, che l’albergatore mi ha consigliato di visitare.

Appena lasciata Leh (che già si trova su un vasto altopiano a quota 3.500 m.) la strada prende ad inerpicarsi in tornanti senza fine, e dopo un ultimo tratto sterrato arrivo sul passo Khardung-La.

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Anche se il cartello messo dal governo indiano indica l’altezza di 5.602 m, il mio gps mi segnala una quota di “solo” 5.345m. Sono comunque sia oltre i 5.000 metri che nella mia testa si fanno sentire tutti con un fastidioso malessere alla nuca. La macchina invece pare non soffrire per la quota. Ormai questo valico è divenuto una meta molto frequentata dai turisti che arrivano fin qui con vari taxi fuoristrada che fanno la spola tra Leh e la Nubra valley. Chiedo ad uno di loro di scattarmi una foto e mi affretto a scendere verso la valle di Nubra. Il mio mal di testa va facendosi insopportabile, a causa della mancanza di ossigeno.

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La notte la passo in uno strano altopiano sabbioso a “solo” 3.300 metri di quota. Il mal di testa prosegue accompagnato da nausea fino al giorno dopo.

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15-19 Luglio:

Attraverso Diskit, centro turistico di Nubra, e arrivo al villaggio di Turtuk. Questo è l’ultimo paese raggiungibile, oltre c’è il Pakistan. La zona è completamente militarizzata. La gente che vive qui di etnia Baltit ed il panorama mi riporta con la mente a Skardu, in Pakistan. Infatti, se potessi proseguire a viaggiare nel fondovalle ci arriverei in circa 150 km. Ma questa è una frontiera militare non aperta al turismo, poi non ho più il visto pakistano.

Parlando con la gente di qui vengo a sapere che questa zona, Turtuk compreso, era parte del Pakistan fino alla guerra indo/pakistana del 1971. Dopo la guerra l’India è riuscita a strappare  questa striscia di terra montagnosa al Pakistan. Questa zona rimane comunque contesa tra le due nazioni con frequenti attacchi militari da entrambe le parti.

Racconto alla gente (che qui ha origini pakistane) che circa un mese fa mi trovavo a Skardu. Tutti vogliono sapere di quei luoghi sentiti nei racconti dei loro parenti che ora non possono neanche andare a trovare per via dei contrasti quasi infiniti tra India e Pakistan. Quando mostro loro le foto che ho scattato nella zona di Skardu si forma subito un capannello di gente attorno a me.

Oltre non posso andare, non mi resta che tornare a Leh, ma prima mi fermo a rimirare un fantastico monastero sormontato da una statua gigantesca.

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Riattraverso nuovamente il Khardung-La (puntualmente mi torna il mal di testa) e decido di ritornare nell’hotel Shambhala di Leh. Il manager mi accoglie ormai come un vecchio amico.

Il giorno seguente, mentre faccio colazione in giardino, vedo arrivare nuovi clienti e con mia sorpresa scopro che alcuni di loro sono italiani. Sono amici dell’ambasciatore italiano a New Delhi, e mi raccontano che questo pomeriggio verrà qui l’ambasciatore Daniele Mancini per presentare un concerto di musica classica organizzato dall’istituto di cultura italiano di New Delhi che si terrà qui a Leh domani pomeriggio.

In breve mi trovo mio malgrado invitato dall’ambasciatore per il concerto del flautista Andrea Griminelli di domani che si terrà in un monastero fuori città.

 

20-24 Luglio

Nel primo pomeriggio prendo a guidare per le vie di Leh al seguito del corteo di auto dell’organizzazione del concerto per raggiungere il monastero fuori città dove si terrà l’evento musicale.

Il posto è incantevole tra le montagne ladake. Tanti gli invitati ed i curiosi ansiosi di ascoltare le note di Griminelli. Come Andrea intona le prime note con il suo flauto magico, l’atmosfera si carca di suggestive immagini amplificate dalla bellezza della locazione, mentre in fondo al vasto panorama nere nubi vengono illuminate lividamente da lampi saettanti.

Dopo concerto viene servito anche un ottimo risotto allo zafferano preparato da un cuoco italiano con ingredienti portati dall’Italia per l’occasione.

Tra gli invitati incontro per caso Marco Vasta, scrittore e appassionato della cultura ladaka. Sono sue le guide del Pakistan e Ladakh che fanno parte della biblioteca da viaggio che ho portato con me. E’ un vero caso furtuito incontrarlo proprio qui mentre sto viaggiando nel Ladakh!

Il giorno seguente saluto gli amici dell’ambasciata italiana di New Delhi per riprendere il mio viaggio verso il Nepal. “Chissà se ci arriverò”, penso tra me mentre lascio Leh e prendo la strada per Manali, distante circa 500km da qui.

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La strada di alta quota, in parte sterrata e malmessa, valica più volte passi di oltre 5.000m. di quota finché l’immenso altopiano ladako finisce e la stradina comincia scendere in strettissimi e impressionanti tornanti verso le pianure indiane. In più tratti la via è in parte franata ed i veicoli creano lunghe code per riuscire a passare in senso alternato senza alcuna regola, come d’uso nel traffico indiano. I fiumi che scendono dall’altopiano si tuffano a valle in fragorose cascate.

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Impiego tre giorni per raggiungere Manali adagiata in un bel fondovalle solcato da un tumultuoso fiume ingrossato dallo scioglimento dei ghiacciai himalayani circostanti. Qui il clima si è fatto grigio, caldo ed umido per l’approssimarsi del monsone che a breve comincerà a scaricare le sue prime piogge.

Rimango a Manali un paio di giorni per riacclimatarmi alle basse quote. Mi ero ormai assuefatto all’aria fina e pura dell’altopiano ladako e ora mi sento un po’ spossato per l’aria “pesante” di quaggiù.

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25-29 Luglio:

Ormai le alte vette himalayane stanno lasciando il posto a colline arrotondate coperte da fitta vegetazione mista a banani e palmeti.

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Infatti, sto per raggiungere le calde e umide pianure dell’India centrale. Mano a mano che scendo l’aria si fa sempre più afosa e le strade più trafficate.

Attraverso la città di Chandigard nel solito traffico impazzito indiano, col quale sono ormai abituato a convivere tra sorpassi senza regole e strombazzamenti vari, e a sera raggiungo finalmente New Delhi.

In breve mi ritrovo imbottigliato nel caos della grande città senza possibilità di scampo tra un’infinità di veicoli dei tipi più disparati. Lo smog è alle stelle amplificato dalla polvere generata dai cantieri aperti per costruire una nuova metro, o linea del tram. Ogni tanto le auto scompaiono tra nubi di pulviscolo. Non so dove sto andando, è buio e mi trovo ancora incastrato sotto i piloni della linea urbana in costruzione. Non vedo un hotel o un indicazione per il centro città. Volevo fermarmi a Delhi una giornata, ma non trovo un posto per dormire. Fermarmi e passar la notte in questa bolgia neanche a pensarci. Già mi mancano i vasti spazi silenziosi e puliti himalayani, dove non avevo nessun problema a trovare un campo tranquillo per il “dusterhotel”. Ora da qui in poi sarà ogni notte un impresa trovare un posto calmo dove pernottare, sto attraversando una delle zone più densamente abitate del pianeta.

Mi fermo un attimo e accendo il mio gps per capire in che direzione sto andando. Non uso un navigatore ma un vecchio gps  nautico Garmin 12, che ho comprato anni fa su Ebay da un napoletano che lo usava su una barca. Quando l’ho acceso la prima volta in memoria c’erano le rotte per raggiungere Ischia da Napoli e ritorno, ed io invece lo sto usando per “navigare” sul mare solido verso oriente.

Praticamente lo utilizzo come una bussola elettronica dove memorizzo i luoghi o strade che intendo raggiungere, inserendo nella memoria del gps le coordinate che ricavo dalle mappe militari o da Google Earth. Se il punto inserito è giusto, mi basta seguire la freccia che appare sul display usando la funzione “go to” del Garmin per raggiungere il posto che ho stabilito (il bello sta nel cercarsi la strada più diretta possibile per arrivare al punto memorizzato nel gps. Basta mantenere la freccia che punta in avanti. Un po’ complicato talvolta in città, ma in India si può andare anche contromano!).

Non si tratta di un gps cartografico, ma di un puro gps di precisione che mostra le coordinate, l’altezza e la velocità. Un’altra funzione che uso spesso è quella del marker per ritrovare luoghi che mi interessano, o posti trovati a caso nei quali mi piace tornare (tipo un ristorante, hotel, monumento, o più frequentemente un posto particolare dove ho “campeggiato”, magari in mezzo al nulla del deserto del Balochistan!).

Certo che il navigatore è senz’altro più facile e comodo da usare, ma secondo me toglie buona parte del bello del viaggiare e di provare quella strana sensazione di perdersi per le strade d’oriente, di chiedere informazioni alla gente.

Consultando l’elenco di punti che ho memorizzato prima di partire vedo che non ce né nessuno a Delhi, ma il più vicino, a 350km in linea retta da qui, risulta essere quello della frontiera tra India e Nepal.

“Bene, vorrà dire che ora faccio rotta sul Nepal!”, mi dico mentre seguo la magica freccia del gps che mi indica la direzione per raggiungere la lontana frontiera persa tra la giungla di Banbasa.

Ora ho un indicazione da seguire, e anche se notte fonda la seguo cercando la strada più diretta possibile. Mi ritrovo a guidare tra strade trafficatissime per poi finire in mezzo alle strette viuzze del bazar percorse da innumerevoli carretti trainati da cavallo o muli. Per fortuna è tardi e non c’è tanta gente, a parte i commercianti che già sono al lavoro per aprire alle prime luci dell’alba i propri negozi e banchetti. Parecchie persone dormono sulla propria bancarella. Zigzagando continuamente tra i banchi, non so come, riesco a passare.

A forza di strade e viuzze varie, mantenendo la freccia del gps che indica il Nepal davanti, riesco ad uscire dalla morsa del traffico di New Delhi, e mi trovo fuori città. Sono sulla strada giusta!

E’ quasi l’alba quando mi metto a dormire in mezzo a un pezzo di campagna vicino ad un canale di irrigazione puzzolente. Fa caldo, è pieno di zanzare, ma la stanchezza è tale che mi addormento subito ugualmente.

Quando mi sveglio, nel pieno giorno, vedo delle donne avvolte nei classici ed eleganti sari colorati che lavorano nei campi di fronte a me. Sarà difficile d’ora in poi trovare luoghi tranquilli dove passare la notte.

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La strada corre prima tra campagne piatte coltivate a riso e qualche bananeto, poi comincia ad attraversare dei boschetti tipo giungla abitati da scimmie e sparuti villaggi costruiti di fango dai tetti di paglia.

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Nel tardo pomeriggio giungo ad un grande fiume e ad una diga. So che la frontiera nepalese è oltre il fiume ma devo trovare il passaggio. Per fortuna trovo presto una stradina che passa sopra la diga. La macchina ci passa al pelo, non vedo altri veicoli qui, solo tanta gente che porta grossi fagotti sulla testa o spinge stracariche biciclette.

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Dev’essere una frontiera secondaria questa qui di Banbasa, comincio a pensare che potrebbe essere anche chiusa al “traffico” turistico. Per fortuna le mie preoccupazioni sono infondate e ben presto mi trovo nel primo paesino nepalese di Mahendranagar.

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Fa un caldo tropicale umidissimo, chiedo alla gente se c’è un albergo. Mi ritrovo presto alloggiato all’hotel Opera. Malgrado il nome pomposo non è niente di che ma almeno ha l’aria condizionata. Sono ancora incredulo,  finalmente ce l’ho fatta ad arrivare in Nepal!

30 Luglio-6 Agosto:

Fa troppo caldo tra queste pianure fitte di vegetazione, decido quindi di prendere una strada che va a nord verso i monti pre himalayani. Riprendo presto a salire tra colline interamente coperta da piantagioni di riso. Quando esce il sole il verde delle piantine è abbagliante.

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Dopo una nottata fresca tra le colline mi tocca tornare sulla strada principale in pianura per raggiungere Kathmandu, visto che la via di montagna non è più percorribile poco oltre il paese Dipayal.

La notte seguente la passo in mezzo alla foresta mentre piove a dirotto senza che il calore cessi. Il mio sonno è disturbato dagli scrosci di pioggia, caldo e versi di strani uccelli.

Pensavo fosse un posto deserto, invece al mattino vedo delle persone con dei fagotti sulla testa che si aggirano e scompaiono tra la foresta e particolari scimmie grigie dall’impeccabile pettinatura.

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Nei parchi naturali qui intorno dovrebbero esserci parecchi animali come elefanti, tigri e coccodrilli, ma io per fortuna incontro solo scimmie e bufali. Immagino che per incontrare le tigri bisogni addentrarsi molto nel fitto della giungla, e pagare a caro prezzo un safari a bordo di elefante.

Anziché andare direttamente a Kathmandu decido di fare una variante verso le colline ed il lago di Pokhara, vicino al paese omonimo.

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Ci arrivo a sera e mi trovo un confortevole hotel con giardino non distante dal bel lago. Per fortuna nella stagione monsonica il prezzo delle camere è ribassato, faccio così il turista per un paio di giorni.

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La cittadina è pulita e piacevole immersa tra le colline attorno al lago azzurro. Il cielo è pieno di turisti in parapendio che si divertono a volteggiare sul lago.

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Lascio Pokhara e provo a prendere una strada sterrata che dovrebbe andare verso l’altopiano del Mustang, sull’Himalaya, ma la strada è impraticabile per via delle forti piogge di questo periodo. Perdo due giorni inutilmente rischiando di rimanere impantanato e di rovinare la macchina. A volte mi dimentico che sono lontanissimo dall’Italia e la Dacia deve anche riportarmi a casa!

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7 Agosto:

Finalmente, dopo 17.600km di viaggio, sono a Kathmandu!

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Quando sono partito da casa, ormai quasi 4 mesi fa, non avrei creduto di arrivare fino quaggiù guidando la mia macchina interamente via terra, e invece eccomi qui proprio nel centro della capitale nepalese a poche decine di metri della centralissima Durbar Square, la piazza più famosa di Kathmandu (KTM per gli amici).

Mi trovo un hotel economico nel Thamel, il quartiere degli hotel, centro nevralgico del turismo della capitale.

Come entro per cena in un ristorante dal nome esotico, con mia sorpresa mi sembra di essere dentro una trattoria di Roma. E’ pieno di italiani che chiacchierano a voce alta. E’ così tanto il fracasso che quasi non riesco a farmi capire dal cameriere. Per me è piacevole trovare dei connazionali con i quali parlare dopo tanto tempo, ma per altri turisti appena arrivati dall’Italia (già, esistono anche gli aerei!), dev’essere un colpo entrare in questo ristorante invece di trovare un posto originale e tranquillo.

In effetti agosto è il periodo vacanziero degli italiani, ed il Nepal è una famosa meta turistica, dunque nulla di strano che ora KTM sia “italianizzata”!

Il giorno seguente mi incammino verso Durbar Square, approfittando di una pausa del monsone. In giro ci sono un mare di turisti di tutte le nazionalità. Vengo continuamente assillato da frotte di ambulanti che cercano di vendere souvenir.

Come sempre accade quando arrivo alla meta dei miei lunghi viaggi, mi viene sempre il solito pensiero: “che delusione ho visto tanti altri posti più affascinanti sulla lunga strada fatta prima di giungere qui”.

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DSCI1399 [1600x1200]Comunque sia la città è affascinante, piena di templi di varie divinità continuamente attorniati da fedeli che accendono candele e bruciano incenso rendendo l’aria carica di spiritualità.

Ma la cittadina di Bhaktapur mi piace molto di più, anche se presa d’assalto da turisti cinesi schiamazzanti.

Come cavallette impazzite sono dappertutto, è quasi impossibile scattare una foto di un monumento senza qualcuno di loro.

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Rimango un’altra giornata vagabondando per la bella Bhaktapur, poi riprendo il mio viaggiare. Non mi va di tornare subito a guidare “verso casa”, prendo così la strada che prosegue a est in direzione del Sikkim, una delle regioni più orientali dell’India incastonata tra Nepal, Tibet e Bhutan.

 

16 Agosto:

Contachilometri 77.746, frontiera orientale del Nepal con l’India di Kagavitta. Mentre espleto le pratiche doganali, una persona che lavora qui si ricorda di me quando nel 2004 passavo di qui con la mitica Panda 4×4. E’ incredibile che qualcuno si ricordi di me dopo 9 anni!

In breve mi ritrovo a guidare nel solito caos indiano del West Bengala, e pernotto in hotel a Siliguri.

Avrei voluto fare la strade che passa per la bellissima zona di Darjeling, famosa per le lussureggianti coltivazioni di tè, ma l’area è in preda a gravi scontri tra militari e manifestanti, purtroppo con diversi feriti. Impossibile passare, Darjeling è interdetta al transito turistico.

Prendo dunque la strada diretta per il montagnoso Sikkim, regione semiautonoma dell’India.

Per entrare nel Sikkim bisogna fare una specie di visto gratuito.

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In breve attraverso il caratteristico portale d’accesso e raggiungo Gangtok, il capoluogo.

La cittadina è interamente costruita sui pendii di una collina. Le vie centrali sono tutte un su e giù. Solo la nuova zona pedonale è in piano, abbastanza accessibile per me.

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Dalla mia mappa vedo che c’è una strada che da Gangtok va a nord e torna tra i magnifici panorami di alta quota dell’Himalaya orientale, ma purtroppo si tratta di una zona sensibile, vista la vicinanza con la Cina.

Per raggiungere quelle zone è necessario uno speciale permesso che però viene concesso solo a gruppi di turisti accompagnati da una guida autorizzata dal governo sikkimese. Giro per un giorno intero in vari uffici governativi ma non riesco ad ottenere nulla.

Senza permessi posso proseguire solo un centinaio di chilometri verso nord. Decido di andare. La strada comincia subito a salire tra bei panorami collinosi dalla vegetazione fittissima. Ogni tanto incontro piccoli villaggi costruiti con quello che sembra bambu intrecciato. Talvolta mi par d’essere dentro uno di quei film dedicati alla guerra del Vietnam, per il tipo di vegetazione e di case che attraverso.

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Passo una notte parcheggiato in mezzo ad un fitto bosco di alte canne di bambu, mentre piove a secchiate. Sogno di venir portato via da un fiume in piena, ma per fortuna non succede nulla, ed il giorno seguente esce un timido sole.

La stradina è mal messa, piccola, fangosa e attraversata spesso da corsi d’acqua. In compenso il panorama non manca e le montagne sono continuamente solcate da spumeggianti cascate.

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Ad un certo punto giungo ad una sbarra vicino ad un posto militare. E’ questo il limite ultimo che mi è concesso raggiungere senza i permessi per la zona di confine Sikkim/Cina. Provo a parlare con i militari ma è inutile, non mi fanno proseguire oltre. Peccato, avevo visto delle meravigliose foto su quei luoghi d’alta quota per me off limits.

Lo prendo come un segnale di luogo ultimo sul mio percorso. “Ora posso cominciare a tornare verso casa”, mi dico mentre faccio dietrofront. Ma prima di tornare tra la calura delle pianure indiane decido di rimanere ancora qualche giorno nel Sikkim occidentale, a ovest di Gangtok.

Passo una notte nel bellissimo hotel  “Red palace” nel villaggio montano di Yuksom, perso tra la nebbia del clima monsonico.

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L’albergatore è molto gentile e mi offre una splendida camera con vista sulla vallata sottostante ad un prezzo stracciato, visto che sono l’unico cliente ora che è bassa stagione. Infatti piove tutto il giorno e notte.

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Il giorno seguente riscendo a valle, esco dal Sikkim riattraverso Siliguri e comincio a “piegare” ad ovest, verso le città indiane lungo il sacro Gange.

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Dopo Patna la strada si fa ancora una volta difficile e fangosa, rallentata per le piogge incessanti. Vedo vari villaggi in parte sommersi dal Gange fuoriuscito dagli argini.

 

2 Settembre:

Anche la famosa Varanasi (Benares) è in parecchi quartieri allagata. Passo una giornata sui Ghat. Osservo sconcertato parecchi templi sommersi dall’acqua melmosa del grande Gange.  Ma la gente sembra prendere con distacco (o forse rassegnazione) la cosa. I fedeli continuano le abluzioni nel fiume sacro e portano con delle barchette i pochi turisti a visitare i templi. Mi dicono che succede quasi ogni anno.

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4-5 Settembre:

Faccio una sosta ad Agra, città famosa per il Taj Mahal, luogo simbolo dell’India e patrimonio dell’umanità. Il posto è frequentatissimo da turisti di ogni parte del globo. Per fortuna il monsone sta finendo ed un sole appena offuscato dall’aria umida contribuisce a rendere ancora più magico il marmoreo mausoleo funerario, costruito come ultima dimora della moglie dell’imperatore moghul Shah Jahan nel 1632.

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Il biglietto d’ingresso costa caro, circa 20 Euro, chiedo se c’è uno sconto per i disabili, ma mi viene risposto che soltanto i non vedenti hanno diritto al biglietto gratuito. Valli a capire gli indiani!

Visito anche il bel Forte di Agra accompagnato da una guida che mi racconta la storia in inglese.

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Ma non posso gustarmi appieno tali magnificenze, il visto indiano scade il 26 settembre e devo affrettare il passo. A New Delhi dovrò fare una sosta per ottenere i visti di ritorno per il Pakistan e Iran e non so quanti giorni ci impiegheranno le corrispettive ambasciate nel concedermeli.

Mi concedo comunque delle altre variazioni di percorso visitando le splendide città di Jaipur e Jodhpur, perle turistiche dello Stato federato del Rajasthan.

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Ma purtroppo è giunta l’ora di raggiungere Delhi ed il suo impossibile traffico. Ci arrivo nel pomeriggio e trovo l’ambasciata italiana. Per richiedere il visto iraniano ho bisogno innanzitutto di una lettera di presentazione da parte dell’ambasciata italiana. Qui rincontro Cesare e l’ambasciatore che avevo già conosciuto mesi fa, quando ero a Leh tra i monti del Ladakh.

Sono tutti gentilissimi e mi stampano subito la lettera. La signora Maurizia mi consiglia una pensione dove soggiornare in attesa dei visti. Impiego parecchio per trovarlo, incastrato com’è tra le viuzze del bazar centrale. Il posto è trafficatissimo ma la camera è lontana dalla strada e abbastanza silenziosa. I gestori sono dei simpatici Sikh dalle caratteristiche barbe nere. Ci accordiamo per il prezzo di circa 15 Euro a notte, colazione compresa.

In 4 giorni riesco ad ottenere il visto iraniano poi in altri 5 giorni mi viene rilasciato “a fatica” anche il visto di transito pakistano valevole solo 10 giorni. Devo ringraziare la signora Maurizia per aver chiamato l’ambasciata pakistana per cercare di facilitare l’emissione del visto che in un primo momento mi era stata negata, poiché da qualche anno non è più possibile (a parte casi eccezionali) ottenere il visto del Pakistan al di fuori della propria nazione. Non potevo certo tornare a Roma in aereo per fare il visto e volare nuovamente a Delhi per poi tornare in macchina!

In totale rimango 11 giorni a Dehli per via dei giorni festivi nei quali le ambasciate non lavoravano. In tutti questi giorni spesso frequento il ristorante italiano presente dentro l’istituto di cultura italiano.

Quando lascio Delhi mancano pochi giorni alla scadenza del visto indiano. Sono stato bene qui e sento un po’ di nostalgia  mentre mi allontano dalla grande città in direzione del Pakistan.

Faccio un’altra sosta a Amritsar, dove incontro il marito di Maurizia che qui insegna musica all’università. Vorrebbe farmi visitare l’istituto, ma domani termina il mio visto.

 

26 Settembre:

Il contachilometri segna 82.231km sono alla frontiera indo pakistana di Wagha nel verso opposto rispetto a tre mesi fa. L’uscita dall’India e l’ingresso in Pakistan si svolge senza problemi e mi ritrovo ancora una volta a Lahore. Mi ero ormai abituato alla libertà dell’India e qui in Pakistan la situazione mi appare peggiorata rispetto a giugno, molto più militarizzata.

Il giorno seguente prendo subito a guidare per la via più breve per raggiungere Quetta nel sempre più instabile Balochistan. Guido da solo senza scorta, fin quando i militari me lo consentono.

Infatti poco oltre Multan vengo bloccato e obbligato a proseguire con varie scorte militari fino a Quetta, capoluogo del Balochistan pakistano.

 

5 Ottobre:

Dopo varie vicissitudini, in parte con la scorta e in parte libero arrivo esausto al confine pakistano/iraniano di Taftan giusto sullo scadere del visto pakistano.

Il posto è come lo ricordavo polveroso in mezzo al deserto balucho col solito trafficare di gente e mercanzie varie. Dopo un tempo indefinito i militi mi aprono l’ultima sbarra, oltre la quale mi accoglie nuovamente l’Iran. Qui la strada torna perfettamente asfaltata e riprendo a guidare mantenendo la destra, all’inizio con un po’ di fatica, dopo tanti mesi passati a viaggiare a sinistra come d’uso in tutte le nazioni dell’ex impero coloniale britannico.

Ormai sento l’aria di casa mi pare quasi un sogno viaggiare sulle perfette autostrade iraniane, dopo tante peripezie passate nei mesi scorse tra il Pakistan, l’Himalaya e le giungle dell’India e del Nepal.

Anche se ho un visto turistico di un mese per l’Iran, allungo il passo e mi soffermo meno a visitare le varie città. Però non mi faccio mancare un’altra visita alla meravigliosa Esfahan, ora ancora più piacevole rispetto a maggio, con la bella luce di inizio autunno.

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14 ottobre:

Il contachilometri segna 87.484km sono alla frontiera iraniano/turca di Bazargan.

Con l’aiuto dei soliti “trafficoni” di frontiera abbastanza velocemente passo in Turchia. Il monte Ararat che ora sfila alla mia destra mi appare già coperto della prima neve e gli alberi sono colorati d’autunno.

Durante la prima notte turca, che passo in un campo uso il sacco a pelo invernale.

Faccio a ritroso la strada fatta parecchi mesi fa, ed il 22 ottobre rientro in Europa attraverso il famoso ponte sul Bosforo. Per festeggiare mi fermo a pranzo sul lato europeo del Bosforo.

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Mi fermo ad un service Renault per un cambio filtri alla macchina. Spiego ai meccanici il viaggio che ho fatto in Asia. Rimangono molto sorpresi quando mostro loro le foto scattate durante il lungo peregrinare a oriente.

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Nei giorni seguenti entro in Bulgaria e decido di fare una variante per vedere lo stabilimento Dacia in Romania. “Massì, tanto è quasi di strada” mi dico quando attraverso la frontiera bulgaro/romena.

Quando mi fermo a pranzo in una città romena mi accorgo che il cameriere parla benissimo l’italiano, e mi consiglia di visitare il castello di Dracula tra i monti della Transilvania nel villaggio di Brain.

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La sera del 26 ottobre mi trovo a gironzolare attorno alla grandissima fabbrica Dacia di Mioveni. Anche se buio vedo le luci accese dentro gli stabilimenti e ogni tanto dei lampi bluastri provenienti dal settore saldatura della catena di montaggio. Fuori tante bisarce cariche di nuove vetture da consegnare.

Il 28 ottobre, quando ormai mi trovo al confine con l’Ungheria, ricevo una mail con la risposta positiva da parte della Dacia di Mioveni sul mio desiderio di voler visitare la catena di montaggio dove è stata costruita la mia auto, ma ormai sono stanco e non me la sento di tornare a Mioveni. Dovrei indietreggiare di 700km. Avevo scritto alla Dacia romena circa 20 giorni fa raccontando loro del viaggio che stavo facendo da mesi ad oriente pensando che non mi avrebbero neanche risposto, ed invece ora mi ha scritto addirittura il responsabile del settore visite dello stabilimento principale Dacia! Rispondo ringraziandoli dell’opportunità rimandando la visita al prossimo viaggio, tanto la Romania è di strada per me.

La sera del 28 ottobre entro in Ungheria e comincia una veloce autostrada. Decido di fare tutta una tirata fino a casa, per me ormai il viaggio è concluso inutile fare altre soste.

Quando varco l’ultimo confine ed entro in Italia mi vengono le lacrime, un po’ per la commozione, un po’ per il fatto che un meraviglioso viaggio carico di emozioni va finendo e non so quando riuscirò a ripeterlo. Ma anche volendo non sarà mai lo stesso.

Riposo appena mezz’ora sull’autostrada italiana e alle 12 del 29 ottobre sono a casa! Mi sento straniero a Roma dopo quasi sei mesi e mezzo e 35.200km percorsi sulle varie strade d’oriente. Il contachilometri segna 93.500km.

Finisce così una fantastica avventura, ma sto già preparandomi per la prossima. Partirò l’11 maggio 2014 per un altro lungo viaggio Verso la Mongolia!

 

 

 

 

 

 

 

 


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Percorso 2004

 2004: Dall’Italia al Tibet e ritorno via Nepal, India, Pakistan e Turchia.

Nell’estate 2004 mi viene offerta una imperdibile possibilità di partecipare ad un raid motociclistico tra Cina e Tibet, organizzato per la prima volta da un agenzia viaggi italiana. Il direttore, conoscendo i miei viaggi precedenti in Asia Centrale mi dice: “se ti fai trovare con la tua Panda a Tashkent (Uzbekistan) per il 4 agosto, giorno di arrivo per via aerea dei motociclisti italiani, ti inserisco nel gruppo, e per tutta la durata del  loro raid di un mese fino a Kathmandu, sarà per te a spese mie. Poi dal Nepal, vedi tu come tornare. I motociclisti rientreranno in aereo.”

Non potevo non accettare, da tanto tempo sognavo di varcare la porta dell’infinita Cina. Il Tibet poi, mi era sempre sembrato come una chimera. Certo, non sarei stato solo e libero di girare per il Paese e conoscere la popolazione come mio solito, ma questo è il prezzo da pagare se si vuole entrare in Cina con il proprio veicolo. Infatti, ogni gruppo di mezzi stranieri deve essere seguito da una persona autorizzata dal governo cinese, i quali debbono essere anche dotati di speciali documenti di circolazione, patente e targhe in cinese. Documentazioni difficili e costosissime da ottenere.

“Da solo non sarei mai riuscito ad entrare nella grande nazione orientale, e poi si tratta solo di un “breve” intervallo di un mese”, penso tra me.

La partenza avviene il 10 luglio 2004 con la solita e inseparabile Panda 4×4 “X” (per via della targa!). All’epoca aveva più di 500.000 km, ma dal motore sostituito.

Il fatto di avere un appuntamento a più di 7.000km da casa mi rende irrequieto. Non posso arrivare a Tashkent oltre il 4 agosto, perderei il passaggio in Cina! “Quest’anno ho il motore nuovo, quindi non dovrei aver problemi di sorta”, rifletto durante i primi chilometri di viaggio. 

Infatti la macchina si comporta benissimo (a parte qualche cedimento nella parte posteriore della scocca, indebolita dalle sollecitazioni e dalla corrosione accumulata con gli anni ed i chilometri, prontamente riparata da abili carrozzieri uzbeki.),  e riesco ad incontrare il gruppo di motociclisti italiani a Tashkent, capitale uzbeka.

Mi fa un certo effetto essere l’unico del gruppo arrivato fin qui via terra ed in più la sola vettura (a parte quelle dell’organizzazione cinese, che “cortesemente” ci scortano).

All’inizio i motociclisti sono preoccupati per la mia presenza, pensando che possa rallentare la loro andatura, o peggio, far perder loro del tempo in seguito a rotture varie.

Ma dopo i primi giorni, sono costretti a ricredersi e la vecchia Panda viene soprannominata “motopanda”. Infatti sono sempre a ridosso del gruppo anche durante i lunghi tratti impervi e pietrosi tibetani. Sono invece i due fuoristrada cinesi a farsi attendere in seguito a frequenti problemi meccanici e forature. 

Attraversiamo paesaggi da sogno, passando dal caldo Xinijang, alle magnificenze montane himalayane. Valichiamo alti passi dalle vertiginose altezze sormontati dalle bandiere di preghiera, ed increduli, raggiungiamo Lhasa, culla del Tibet e del buddhismo.File49 L'arrivo a Lhasa

Gli impareggiabili motociclisti, riescono a compiere un’impresa degna di un Guinness: in quattro riescono a portarmi in visita a tutti i piani del maestoso palazzo Potala. 11 piani di scale, a volte ripidissime e strette. Forse nessuno prima di me era stato portato fin quassù con una carrozzella!File57 I mitici motociclisti mi portano a visitare il Potala

E come in preda ad un estasi (forse per la scarsità di ossigeno dovuta all’altezza), arriviamo al Campo base Everest posto a quota 5.300m.

Dopo vertiginose discese su una terribile strada tormentata da frane e fango, stanchi ma appagati, giungiamo nel caldo tropicale di Kathmandu.

E’ l’inizio di settembre. Il percorso dei coraggiosi motociclisti volge al termine, mentre il mio è soltanto a metà!

Il distacco dai miei amici è doloroso, mi ero abituato alla loro presenza ormai, ma era inevitabile. In breve mi ritrovo solo nel caotico traffico della capitale nepalese.

Durante il viaggio fatto di corsa appresso al gruppo, non avevo avuto il modo di rendermi conto esattamente dove mi trovavo, e tutto mi sembrava distaccato e lontano. Ora, invece, la realtà circostante mi cade addosso e travolge come un fiume in piena.

Per fortuna il senso di spaesamento dura poco e riesco a riprendere il controllo della situazione. Ho varie cose da fare prima di ripartire. Prima di tutto le riparazioni alla scocca che sta per cedere nuovamente, poi i visti per India e Pakistan.

Un gruppo di maestri artigiani del ferro rimettono in sesto la Panda in mezza giornata, ed in cinque giorni di attesa ottengo i visti. Si riparte!

Visito il Nepal, poi entro in Sikkim perdendomi tra verdissime piantagioni di tè e dispettose scimmiette.

Ancora montagne, ma ora gradatamente, cominciano a divenire colline coperte di fittissima vegetazione per poi lasciare il passo alle pianure.File94 paesaggi del sud nepalese

Sono in vista del sacro Gange, che diventerà il mio compagno fino a Delhi. 

La guida in India è spossante per via del traffico impossibile, i rumori, lo smog che a volte blocca il respiro, e le condizioni delle strade. Nei villaggi, o peggio nelle città, veicoli strombazzanti di ogni tipo, animali e persone, si muovono in una sorta di apoteosi generale senza regole alcune. A volte sono costretto a fermarmi per non impazzire.

Non so come, ma “approdo” a New Delhi che sembra essere il fulcro del caos e dell’inquinamento indiano. Dopo un giorno di riposo, decido di tornare tra le montagne himalayane in cerca di tranquillità e aria pulita. Non potevo perdermi il Ladakh! 

Qui, nella quiete del “Piccolo Tibet”, ritrovo me stesso.

Monasteri, bandiere di preghiere templi e monaci mi danno il benvenuto a Leh, capitale spirituale ladakha.

La Panda mi accompagna, fedele come sempre, in cima al valico carrozzabile più alto del mondo: il passo Khardung-la, a quota 5.640m.

Lascio il misterioso Ladakh, e di valico in valico mi spingo fino al Kashmir, conteso da Pakistan e Cina, ma di fatto controllato dall’India. La bellissima città di Srinagar, sulla riva del sognante lago Dal, File145 Srinagar, il lago Dalsi schiude ai miei occhi come un fiore prezioso e segreto. Un amichevole famiglia mi invita a pranzo a bordo del loro house boat sul lago argenteo. Momenti tranquilli ed indimenticabili che contrastano terribilmente con la difficile situazione militarizzata in cui vive la popolazione kashmira.

Da pazzo provo a spingermi verso la zona di “cessate il fuoco”, il confine conteso tra India e Pakistan, ma come immaginavo vengo bloccato ed obbligato a tornare sui miei passi. L’unica frontiera aperta al transito internazionale tra i due paesi è quella di Amritsar, 600km a sud da qui.

Finalmente ad Amritsar, dopo aver visitato il famoso “Tempio d’Oro”, varco la maestosa frontiera indo/pakistana. I militari pakistani mi osservano incuriositi con le loro strane uniformi.File154 L'ingresso in Pakistan Lahore mi accoglie con il suo traffico, caotico e rumoroso, ma più sopportabile rispetto a quello indiano. E’ una città mistica ed ammaliante piena di gente curiosa ed affabile, una città viva. Mi sento a mio agio qui.

Il mio viaggio prosegue verso la capitale. Islamabad dista 400km a nord. E pensare che attraverso la zona del “cessate il fuoco”, Islamabad sarebbe stata a solo 200km da Srinagar. Evitare la zona vietata mi costa la bellezza di 1000km di “deviazione”. A Islamabad, città nuovissima e senza storia, contatto l’ambasciata iraniana per ottenere il visto di transito, ma la procedura è lunga: due settimane di attesa! “Poco male, ingannerò l’attesa girando un po’ per i monti pakistani” penso tra me.

Seguono giorni ramingo tra meravigliose montagne e villaggi. Ormai sono a metà ottobre e le vette del Karakorum sono imbiancate e le strade bloccate dalla neve. Impiego diversi giorni per arrivare a Chitral, vicino all’Afghanistan. Impossibile proseguire oltre, torno a Islamabad, ritiro il sospirato visto e riprendo a viaggiare verso l’irrequieto Balochistan, regione a statuto speciale addossata all’Afghanistan. In questi luoghi incontro tantissime persone barbute che portano a tracollo, con naturalezza, pesanti Kalashnikov. Alcuni di loro mi dicono: “fai attenzione, questa sono zone un po’ “particolari”. File176 Pakistan, accoglienza nel WaziristanCome mio solito, anche quaggiù continuo a dormire nella mia “Panda-mini-camper”, senza incontrare problemi di sorta. La gente si rivela amichevole e gentile, come in tutti gli altri luoghi visitati durante gli scorsi mesi di viaggio. L’ultima città pakistana che attraverso è la grande Quetta, ormai il confine con l’Iran è vicino. 

Una volta varcata l’importante frontiera il mondo cambia: la strada si fa perfetta, levigata e ampia come una delle nostre autostrade. La viabilità riprende come in Europa, mantenendo la destra. Io che ormai avevo fatto l’abitudine alla guida a sinistra, usata da Nepal, India e Pakistan, trovo qualche difficoltà a riabituarmi, e nei primi chilometri mi ritrovo a guidare contromano!

Mi rendo conto che sono più di tre mesi e mezzo che sono in viaggio e comincio a sentire la necessità di tornare a casa e perdo l’interesse nelle soste a visitare le importanti città iraniane. Faccio una sosta giusto alla storica fortezza di Bam, distrutta da un devastante terremoto nel 2003. Rimango attonito ed ammutolito di fronte a tanta distruzione, con un groppo in gola. Avevo tanto sognato negli anni passati di visitare questa mitologica città-fortezza costruita d’argilla. Nelle fotografie appariva come un gigantesco castello di sabbia, ed ora come tale si è disgregato, sbriciolato, di fronte all’immane forza della natura.

Una tristezza infinita si impossessa di me, che mi spinge ad allungare il passo verso Tehran ed il confine iraniano/turco. Quando oltrepasso la frontiera sento già l’aria di casa, ed in pochi giorni arrivo al lungo e maestoso ponte sul Bosforo. E’ commuovente quando vedo il cartello che mi informa che sono in Europa.

Ora mi attende soltanto l’ultima frontiera con la Grecia, e poi dopo un traghettamento  rientro in Italia, a Brindisi. Sembra quasi impossibile riprendere a parlare con la gente utilizzando la mia lingua dopo più di 4 mesi passati a zonzo per l’Asia, incredibile.

Provo a raccontare del mio girovagare, mentre gusto un bel piatto di tagliatelle al gestore di un ristorante della città portuale, ma sono certo di non venir creduto. Anzi rischio di essere preso per pazzo!

Il giorno successivo, è il 15 novembre 2004, dopo 32.000km torno a casa, parcheggio in garage come niente fosse e spengo il motore, ma non i pensieri che continuano a galoppare tra le pieghe dell’Asia. Sento che la mia casa non è più qui ma in viaggio, errante da qualche parte verso l’Oriente profondo.